Il caso Fritz Haber: quando la scienza rinuncia a un codice etico
Contestato premio Nobel, Fritz Haber rinnegò le sue origini ebraiche divenendo un ingranaggio della macchina bellica tedesca, Introdusse l’impiego di gas letali, ma le leggi raziali lo costrinsero poi all’esilio
Il nome di Fritz Haber ricorre ogni volta che ci si interroga sulle implicazioni etiche della ricerca scientifica. Studioso tedesco di buona fama, molto attivo a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel 1918 vince il Premio Nobel per la chimica con una improvvida motivazione che riconosce il «grande beneficio per l’umanità» delle sue scoperte. Tuttavia, essa sorvola sulle tante ombre che gravano sull’uso che proprio di quelle scoperte è stato fatto.
La stessa personalità di Haber sembra consistere di due facce contraddittorie: il talento e l’aridità morale. Fin dagli anni giovanili, dimostra grande intuito nell’individuazione di nuovi sentieri della speculazione scientifica, e dopo gli eccellenti risultati degli studi negli atenei di Heidelberg e Berlino e l’accesso alla carriera universitaria, gli viene affidata la direzione di quel prestigioso Istituto che era il Kaiser Hilhelm, dove darà una significativa estensione alla ricerca applicata. Ma è nello stesso periodo che Haber si fa accanito sostenitore del più acceso nazionalismo, fino al punto di rinnegare l’origine ebraica con la conversione al cristianesimo.
L’educazione familiare gli ha trasmesso una rigida concezione dei doveri sociali, dell’assoluta dedizione al lavoro, della disciplina, un’attitudine del tutto compatibile con la severità delle ricerche, che all’approssimarsi del risultato atteso non ammettono deroghe all’esclusività dell’impegno. Persino la controllata concessione alla vita affettiva avviene nell’ambito dei programmi di lavoro: Clara Immerwahr, la prima moglie, è anche la sua preziosa collaboratrice in ogni fase della ricerca.
Nel 1910, il sensazionale annuncio della sintesi dell’ammoniaca dai suoi componenti: è una svolta decisiva per lo sviluppo di una industria chimica di nuova generazione. I fertilizzanti sintetici si riveleranno infatti indispensabili per il superamento di una grave crisi della produzione agricola causata dal blocco inglese alle importazioni di guano dal Sud America.
Ma è la Grande Guerra l’evento che più di ogni altro sembra liberare in Haber pulsioni caratteriali rimaste fino a quel momento celate: si dispone alla febbrile attesa dell’applicazione su larga scala degli esiti di una sua scoperta e, contemporaneamente, si accende in lui l’idea di associarsi a quanti credono nell’avvenire del Reich come potenza occidentale, e fa sua la tendenza pangermanistica del tempo con l’attesa messianica di un nuovo Sacro Romano Impero. È talmente posseduto da questo ideale, che dichiara di vederlo come «qualcosa di grande ed eterno». Da qui, una scelta ideologica che trasforma lo scienziato in un ingranaggio della macchina bellica.
Nel 1914 è uno degli esperti impegnati a ottimizzare l’uso dei nitrati nella confezione degli esplosivi. Poi viene il momento in cui le sorti della guerra sembrano volgere al peggio. Capo Supremo è nominato il Maresciallo Von Hindenburg, quello che crede nella «pace vittoriosa» anche quando l’obiettivo sembra irrimediabilmente allontanarsi. Da quel che riferiscono le cronache, possiamo immaginare Haber seduto al tavolo dello Stato Maggiore nella funzione a lui affidata di Responsabile del Servizio Chimico dell’Esercito: è fermamente convinto che si possa portare il conflitto a rapida soluzione aggiungendo alle insufficienti armi convenzionali la devastante potenza dei gas tossici.
Non solo prosegue nella ricerca di più aggressive sostanze chimiche, ma assume la funzione di responsabile sul campo delle azioni militari in cui si adoperano i gas letali al posto delle bombe. Nell’aprile del 1915 è in Belgio per controllare di persona gli effetti degli attacchi con la micidiale iprite. Nessuna resipiscenza nemmeno quando la moglie Clara non regge alle notizie delle sue efferatezze e si suicida. Sembrerebbe la riduzione all’ambito familiare di un insopportabile rimorso collettivo. Ma non è così. Lui non attende nemmeno il funerale e il giorno stesso riparte per il fronte.
Dopo la guerra torna a dirigere il KHI e si dedica tra l’altro alla più innocua ricerca di un modo per separare per via elettrochimica l’oro dall’acqua di mare, e anche se la sua lucida determinazione nell’escogitare armi di sterminio sempre più sofisticate e a pianificarne l’uso è stata vivamente deplorata dalla comunità internazionale, ciò non impedisce che il Nobel lo consacri scienziato di fama internazionale.
La Germania ne fa motivo di orgoglio ma, nonostante le benemerenze, Haber conoscerà la sua nemesi con l’avvento del nazionalsocialismo, quando la professione di fede patriottica esibita in guerra non basterà a risparmiargli l’ostilità che monta contro gli ebrei. L’apostasia gli ha pure alienato la protezione e il sostegno morale della sua gente. Nel 1933, quando il decreto razziale allontana dall’Istituto Kaiser Hilhelm, ancora da lui diretto, tutto il personale di origine ebrea, c’è chi interviene per risparmiargli la stessa sorte; ma sarà Hitler in persona a giudicare la richiesta irricevibile. Haber è perciò costretto all’esilio: ripara in Gran Bretagna, nel 1934 si trasferisce in Palestina e poi a Basilea, dove morirà l’anno dopo.
Sarà solo dopo la caduta del nazifascismo, con i processi di Norimberga, che si scoprirà che un acido per la disinfestazione da parassiti, largamente impiegato nelle camere a gas dei lager, veniva prodotto proprio in uno stabilimento di Fritz Haber. Chissà se il contestato vincitore del Nobel era all’epoca consapevole di questo fatto.
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