Enrico Fermi: il Cristoforo Colombo dell’atomo
Così venne definito durante una telefonata in codice del Progetto Uranio che annunciava la riuscita della prima reazione a catena. La fissione nucleare poteva essere controllata e Fermi, da poco insignito del Nobel per la Fisica, diventava il fondatore dell’era atomica
«Alcuni esperimenti eseguiti nel mio laboratorio hanno rivelato che si potrebbero creare condizioni nelle quali l’uranio sarebbe in grado di liberare la sua energia atomica. Si può prevedere il suo impiego come esplosivo. Potrebbe, infatti, liberare un’energia un milione di volte superiore a quella di qualsiasi altra bomba finora conosciuta» con queste parole Enrico Fermi e George Pegram decidono di informare il governo statunitense dell’entità delle proprie ricerche. L’anno era il 1939 e Fermi era giunto solo pochi mesi prima a New York, per continuare i suoi esperimenti alla Columbia: con la scusa del ritiro del premio Nobel a Stoccolma, era fuggito da Roma, dove le leggi razziali fasciste stavano mettendo in pericolo la moglie Laura, di origine ebrea.
Nel frattempo in Germania erano stati pubblicate le prove della trasmutazione dell’atomo di uranio in elementi di massa media e, per la prima volta, era stata usata la parola fissione. La scoperta venne comunicata a Fermi da Niels Bohr, che giunse negli Stati Uniti invitato da Albert Einstein, anch’egli in esilio dagli orrori della guerra che imperversava in Europa.
Il fisico italiano si rese presto conto delle implicazioni della fissione nucleare: con una massa di uranio sufficientemente grande, una volta innescato, il processo si sarebbe automantenuto attraverso una reazione a catena.
Alla fine degli anni trenta, lo sviluppo degli studi sull’energia atomica negli Stati Uniti avvenne proprio grazie ai fisici europei immigrati da poco. Questi infatti, in quanto stranieri, non erano ammessi a partecipare alle ricerche sul progetto radar, considerato prioritario dalla Difesa americana: gli alti dirigenti statunitensi ancora non si rendevano conto dell’importanza e della vastità delle possibili applicazioni della fisica nucleare.
Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in Europa e la lettera di Fermi e Pegram, il presidente americano Franklin Roosevelt decise di istituire il Progetto Uranio. A far parte del progetto fu chiamato lo stesso Fermi, che concentrò tutti i suoi sforzi per riuscire a ottenere la reazione a catena, fantasticata sin da quando con Franco Rasetti, Edoardo Amaldi, Emilio Segrè ed Ettore Majorana, faceva parte del gruppo dei ragazzi di via Panisperna, l’elite italiana dei giovani ricercatori del Regio istituto di fisica dell’Università di Roma.
Fermi cominciò a costruire una pila atomica a base di strati alternati di uranio e grafite, ma i soffitti della Columbia rappresentavano un vero e proprio limite: nell’Università non c’era un locale adatto per contenere la pila, che non era ancora di dimensioni sufficienti a innescare la reazione a catena. Quando il progetto fu trasferito a Chicago per volontà di Roosevelt, il fisico italiano continuò a costruire la pila sotto la tribuna dello stadio Stagg Field, e riuscì ad arrivare alle dimensioni del progetto originale: un elissoide di 308 cm di altezza e 388 cm di larghezza. La stampa americana, informata sull’eventualità di un’esplosione scatenata dalla reazione a catena, soprannominò il gruppo di Fermi “la squadra suicida”. Per limitare l’inquinamento da radiazioni che si sarebbe sprigionato nell’aria circostante, il gruppo fece inoltre costruire alla Good Year un pallone cubico di gomma stagna da posizionare intorno all’imponente pila.
Il 2 dicembre 1942, il premio Nobel Arthur Compton informava il responsabile del Progetto Uranio, James Conant, del successo della reazione a catena avviata da Fermi: «Il navigatore italiano è arrivato nel nuovo mondo», «E come erano gli indigeni?» chiese Conant, «Molto cordiali» rispose Compton. Intanto nell’agosto di quello stesso anno e dopo l’attacco di Pearl Harbor, le autorità militari americane avevano assunto la direzione del Progetto Uranio, cambiandone il nome in Progetto Manhattan.
L’uranio impiegato per la realizzazione della pila, essendo costituito principalmente dall’isotopo U238, non poteva essere utilizzato come materiale fissile nella preparazione di una bomba atomica. Affinché il processo di fissione diventasse esplosivo era indispensabile utilizzare elementi come l’isotopo raro U235 o il plutonio: metallo scoperto pochi anni prima da Marie Curie e le cui caratteristiche furono svelate proprio da Fermi.
Come sito di progettazione e costruzione delle bombe venne scelto Los Alamos, nell’omonimo canyon del Nuovo Messico, dove sorse dal nulla una vera e propria cittadella per tecnici e scienziati. La città di Santa Fé si trovava a circa settanta chilometri dal sito e la ferrovia più vicina a circa cento chilometri. La zona venne detta “località Y” e i coniugi Fermi dovettero cambiare il cognome in Farmer per motivi di segretezza militare.
Agli esperimenti di Los Alamos parteciparono vari ricercatori, tra cui alcuni amici di Fermi come Emilio Segrè, Niels Bohr e Bruno Pontecorvo, ma solo il fisico statunitense Robert Oppenheimer, che aveva assunto l’incarico di direttore, era a conoscenza dell’intero progetto. A Fermi fu affidata la “divisione F”, che si occupava della gestione dei problemi di natura teorica in cui potevano incorrere gli altri laboratori del progetto.
I lavori continuarono fino a quando, nel deserto di Almogordo, venne fatto esplodere The Gadget, il primo ordigno a fissione nucleare della storia.
Il bagliore dell’esplosione fu visto fino a Santa Fé. Era il 16 Luglio 1945 e Fermi, a bordo di un autoblindo interamente foderato di piombo, si recò sul luogo dell’esplosione per verificare l’esito dell’esperimento: era stato generato un cratere di 700 metri di diametro completamente ricoperto da una superficie vetrosa che venne in seguito chiamata atomite. La sabbia del deserto si era fusa e poi nuovamente solidificata a causa del calore sprigionatosi durante l’esplosione. Ma furono gli ordigni Little Boy e Fat Man a imporre un vero dramma di coscienza in tutta l’umanità: le bombe rispettivamente a base di uranio 235 e plutonio 239 (come The Gadget), furono sganciate meno di un mese dopo sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, uccidendo all’istante circa 120 mila persone. A Los Alamos, la notizia fu appresa dal comunicato radio del neo-presidente Harry Truman e colpì duramente molti scienziati tra cui lo stesso Fermi. «Non è possibile arrestare il progresso della scienza e l’ignoranza non è mai migliore del sapere. Se la bomba atomica non fosse stata ideata da noi, sicuramente, in un prossimo futuro, altri sarebbero giunti allo stesso risultato» racconta Laura Fermi nel libro Atomi in famiglia, esprimendo con delle semplici parole i pensieri e lo sconforto del marito Enrico.
Dopo aver partecipato alla costruzione del ciclotrone di Chicago (uno dei primi acceleratori di particelle), nel 1954, all’età di 53 anni, Enrico Fermi si spense a causa di un tumore non operabile all’apparato digerente. Nello stesso anno, durante la Conferenza di Ginevra, Glenn Seaborg annunciava di aver scoperto l’elemento 100 tra le ceneri dell’atollo Eniwetok, dopo l’esplosione della prima bomba H: propose e ottenne di chiamare questo nuovo elemento “Fermio” in onore del fisico scomparso.
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