Alexander Fleming (1881-1955): la fortuna aiuta i curiosi
Come una mente scientifica seppe trasformare un incidente in una scoperta straordinaria
Una delle scoperte più importanti della medicina moderna avvenne quasi per caso. Il 3 settembre 1928, tornato da una breve vacanza, Alexander Fleming stava pulendo il suo laboratorio presso il St Mary’s Hospital quando notò un’anomalia: le piastre di Petri contenenti Staphylococcus aureus erano state contaminate da un fungo. Fleming osservò che la colonia di muffa aveva inibito la crescita dei batteri circostanti e ne fu subito incuriosito. Invece di buttare via tutto, decise di approfondire il fenomeno.
Fleming nutriva da sempre un forte interesse per l’osservazione dei fenomeni naturali. Figlio di due agricoltori scozzesi, aveva trascorso gran parte della sua infanzia nella fattoria di famiglia, a stretto contatto con la natura. Era un ragazzo tranquillo e diligente, ma privo di ambizioni accademiche: a sedici anni si era diplomato all’istituto tecnico e aveva iniziato subito a lavorare presso un ufficio spedizioni. Solo a vent’anni, avendo ricevuto un’eredità, aveva deciso di usarla per studiare medicina presso la St Mary’s Hospital School. Nel 1906 aveva accettato un posto come assistente batteriologo nel laboratorio di Sir Almroth Wright, uno dei pionieri dei vaccini: nonostante si fosse iscritto a medicina con l’idea di diventare chirurgo, il mondo della ricerca lo aveva affascinato a tal punto che aveva deciso di specializzarsi in batteriologia.
Wright si occupava personalmente di raccogliere fondi e mantenere i contatti, permettendo così al timido Fleming di lavorare in tranquillità alle proprie ricerche. Oltre ad appassionarlo dal punto di vista scientifico, i microrganismi erano per lui anche un interesse artistico. Fu infatti uno dei primi ad utilizzare batteri pigmentati per dipingere: i disegni, tracciati attraverso una precisa disposizione dei microorganismi sulle piastre di Petri, si dissolvevano man mano che la crescita incontrollata dei batteri procedeva oltre i bordi prestabiliti. Alcune fotografie sono però tutt’oggi conservate presso l’Alexander Fleming Laboratory Museum a Londra.
Durante la Prima guerra mondiale, Fleming ebbe la possibilità di approfondire il suo interesse per le malattie infettive. Si unì al Royal Army Medical Corps con il grado di capitano e lavorò nel laboratorio da campo di Wright a Boulogne, in Francia. Qui si dedicò alle ferite dei soldati, che spesso costringevano ad amputazioni o risultavano fatali, dimostrando che l’utilizzo di forti antisettici danneggiava i tessuti. Questa esperienza lo convinse della necessità di trovare un farmaco in grado di alleviare le sofferenze causate dalle infezioni.
Dopo la guerra Fleming tornò quindi al St Mary’s Hospital, dove nel 1921 fece la sua prima importante scoperta: il lisozima. Mentre lavorava sulle colture cellulari con il naso colante a causa di un raffreddore, una goccia di muco gli cadde su una delle piastre. Anche se l’esperimento era ormai rovinato, Fleming conservò la piastra contaminata e notò che i batteri mostravano segni di lisi cellulare. Capì che il fenomeno era dovuto a un enzima presente nelle secrezioni umane, che chiamò lisozima. Il lisozima non aveva effetto sui batteri patogeni, ma la scoperta servì a convincerlo che trovare un farmaco selettivo contro i microorganismi fosse possibile.
Ricercatore solitario con un occhio attento per gli avvenimenti inusuali, Fleming aveva la mentalità adatta a riconoscere la validità di un’osservazione casuale e, sette anni dopo la scoperta del lisozima, il suo intuito lo guidò nuovamente, permettendogli di fare il primo grande passo verso la scoperta degli antibiotici. Per lo sviluppo terapeutico di un nuovo farmaco sarebbe stato necessario un approccio multidisciplinare ma Fleming, restio a procurarsi contatti con chimici o farmacologi, continuò a lavorare con il solo aiuto di due assistenti, finché non identificò il fungo che aveva contaminato le piastre di Petri come Penicillium notatum. Chiamò l’agente antibatterico derivante dalla muffa «penicillina» e dimostrò la sua efficacia su diversi ceppi di batteri patogeni. Capì inoltre che agiva selettivamente sui batteri senza danneggiare l’ospite, ma tutti i suoi tentativi di stabilizzare la penicillina fallirono e la difficoltà nell’ottenere la sostanza pura lo portò ad abbandonarne lo studio. Pubblicò le sue scoperte sul «British Journal of Experimental Pathology» nel 1929 e tornò a dedicarsi ai suoi precedenti lavori. L’articolo non destò particolare interesse nella comunità scientifica e fu solo dieci anni dopo che il chimico tedesco Ernst Chain scoprì il processo per isolare la penicillina e il farmacologo australiano Howard Florey ne sviluppò la produzione industriale. L’introduzione della penicillina durante la Seconda guerra mondiale diede inizio all’era degli antibiotici: malattie come polmonite, gonorrea e febbre reumatica divennero curabili e furono salvate milioni di vite.
Per questo nel 1945 Alexander Fleming, Ernst Chain e Howard Florey condivisero il premio Nobel per la medicina.
Durante l’ultimo decennio della sua vita, Fleming fu celebrato per la sua scoperta e fece da ambasciatore per la medicina, diventando presto uno degli scienziati più conosciuti al mondo. Fu proprio grazie al suo carattere mite e alla sua generosità che riuscì a conquistare il pubblico: non accettò mai, infatti, di ricevere i diritti commerciali sulla penicillina. Quando nel 1945 le industrie chimiche americane decisero di donargli 100.000 dollari come ringraziamento per il suo contributo, rifiutò di usare personalmente i soldi e li investì tutti nella ricerca.
Fleming non cercò mai di sminuire il ruolo della fortuna nella sua scoperta e, durante una conferenza presso la Harvard University, parlando di come a volte gli scienziati riescano a trovare quello che non stanno cercando, volle esortare gli studenti a esercitare sempre la loro curiosità: «Nelle nostre vite il caso può avere un’influenza impressionante e, se posso dare un consiglio ai giovani ricercatori, mai ignorare un avvenimento fuori dal comune».
Credits immagine di copertina: Wikipedia
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