Il fu Luigi Pirandello: breve storia dell’infelicità di un Nobel
L’unica foto in cui sorride è quella della cerimonia del Nobel. I successi delle sue opere, spesso autobiografiche, non bastarono a bilanciare le amarezze avute dalla vita. E dagli amori. Tranne uno
La motivazione del premio Nobel ottenuto da Luigi Pirandello (1867-1936) nel 1934 recita «per il suo audace e ingegnoso rilancio dell’arte drammatica e scenica». Meno male, invece, che sul fronte personale non è mai stato altrettanto audace da mettere in atto quei pensieri suicidari che lo avevano colto molti anni prima. La sua vita infatti non è stata tutta rose e fiori, e glielo si può leggere in faccia, in quasi tutte le fotografie che gli sono state scattate: appare sempre come un azzimato signore col pizzetto, con la mano sotto il mento o a figura intera in giacca e cravatta, comunque mai sorridente e sempre vecchio. È mai stato giovane Pirandello? Si è mai divertito? Le donne lo hanno reso felice? O l’unica soddisfazione della sua vita è stata il premio Nobel? E perché a un certo punto ha pensato di suicidarsi?
La sua esistenza incomincia nel caos: Caos come il nome della località della sua nascita, vicino ad Agrigento, mal trascritto da un impiegato dell’anagrafe. Ma anche caos come disordine, confusione, come quell’idea che gli mette in testa la balia, da piccolo: gli racconta di un bambino scambiato nella culla, di una vita in una famiglia non sua, e a lui quello scambio immaginario rimane impresso nel cervello come una cicatrice.
Quel sembrare qualcuno ed essere invece qualcun altro diventa poi il tema autobiografico ricorrente nella sua produzione letteraria: fa indossare delle maschere ai suoi personaggi, perché, dice, «siamo quello che gli altri credono di vedere in noi».
La prima finzione la affronta da adolescente, complice il padre. Luigi scopre che si mette la maschera del rigore educativo, per poi togliersela – e non solo quella – con domestiche e parenti varie. Così l’austero genitore infligge il primo colpo alla sua felicità. Anche con le ragazze non inizia bene: una cugina si invaghisce di lui fino ad impazzire, letteralmente. È allora forse che sulla faccia di Pirandello inizia a smorzarsi il sorriso. E che Luigi incomincia a pensare, a giudicare: a invecchiare.
Troppo caos, basta Caos. Cerca a Roma una vita normale, ma all’università ha una disputa letteraria con i professori, rifiutando il conformismo da yes man. Serio, a testa alta e con le idee chiare, si trasferice in un altro ateneo, in Germania. La terra teutonica risveglia in lui la parte libertina ereditata dal padre. Quello però è anche un periodo in cui Pirandello è e si comporta da giovane: cerca la compagnia femminile, e scrive pagine e pagine di versi per averla. D’altra parte, quello sa fare: scrivere. Non è dato sapere se le ragazze che frequenta lo apprezzino per le sue poesie, o più prosaicamente per altre doti. Comunque, nelle foto sembra un serio studente.
Dopo la laurea nel 1891, Pirandello torna a Roma con la speranza di dare alla patria un grande teatro, e preparandosi a diventare un monaco con un’unica religione: l’arte. Ma il Caos lo richiama a sé. Nel 1894 la famiglia gli combina un matrimonio a sorpresa: gli fa trovare una moglie con una bella dote. Lui la sposa, pensando di potersi scrollare di dosso un po’ di caos economico. E in fondo Antonietta Portulano, pur non essendo il grande amore, non sembra poi così male.
Naturalmente la porta con sé a Roma, pensando così di fuggire lontano dal Caos. Ma la vita reale e quella donna alimentano l’idea di arbitrio incontrollabile che si trova nelle sue opere: nel 1904 una frana distrugge la miniera di zolfo di Agrigento dove ha investito la dote della moglie, la quale per questo perde il lume della ragione. E non solo lei. Pirandello, sentitosi improvvisamente povero, abituato com’è alla vita borghese, sprofonda nella depressione e il suo pizzetto s’imbianca. Così apparirà per sempre nelle foto.
Messo con le spalle al muro dagli eventi, inizia a scrivere non più per diletto, ma per dovere, per mantenersi. Nel frattempo arriva il 1914, portando la guerra nella sua famiglia: lui è sì interventista, ma non fino al punto di volere l’arruolamento volontario dell’amato figlio Stefano, che oltretutto viene subito fatto prigioniero. Senza più una certezza economica, con una moglie pazza in casa e un figlio in guerra, si consolida la sua triste concezione del vivere. Vegliando su Antonietta scrive un romanzo, Il fu Mattia Pascal, dove il protagonista (Mattia come sinonimo di “mattezza”, “pazzia”) perde il senno perché si accorge che la moglie non lo ha mai amato, ma ha visto in lui solo un uomo immaginario. E con l’idea della vita in continuo divenire, Pirandello pensa alla trasformazione
definitiva: da vivo a morto. Realtà e finzione si confondono, e quella scrittura autobiografica sembra quasi l’annuncio di un suicidio, per fortuna mancato.
Dopo la guerra, Pirandello si dedica al teatro e finalmente ottiene successi internazionali. Nel 1925 fonda una sua compagnia, ed è così che incontra l’attrice venticinquenne Marta Abba, ambiziosa e affascinante. E di nuovo è il caos: con la moglie internata in manicomio, scatta in lui la passione, ma è solo un amore di carta. Ancora una volta fa quello che sa fare: scrivere. Scrive opere apposta per lei e 580 lettere, raccontandole di tutto. E le telefona. Marta risponde con tiepidità e sempre dandogli del lei. In una foto compaiono insieme in teatro: lei sognante, lui, serio regista, le dice come fare.
Nell’inverno del 1934, il freddo di Stoccolma gli congela un sorriso sulla faccia abbastanza a lungo da poterlo immortalare in una foto: alla cerimonia del Nobel, sembra per un attimo gioire per quel traguardo raggiunto. Il Caos è così lontano… Poi però si sbarazza della medaglia, donandola come “oro alla Patria”. Forse non ci tiene poi così tanto. In fondo in tutta la sua vita è stato felice solo quando poteva stare insieme all’unica compagna che non lo ha mai tradito e che ha dato a lui (e a noi) tante soddisfazioni: la penna.
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