Giulio Natta: un mondo di plastica
Con la scoperta del polipropilene isotattico ha rivoluzionato la vita di tutti, diventando anche l’unico italiano a ricevere il premio Nobel per la chimica
Stoccolma, 10 dicembre 1963. La Stockholm Concert Hall è gremita di personalità in abito elegante. Sul palco sono schierati i vincitori, in attesa della consegna delle medaglie. Tra di loro c’è il volto mite del professor Giulio Natta. Il professore è lì per ricevere il premio Nobel «per la sua scoperta nel campo della chimica degli alti polimeri». Al momento della premiazione, però, accade una cosa straordinaria: contrariamente all’etichetta della cerimonia, è il re di Svezia ad alzarsi e a raggiungere Natta sul palco. Lo scienziato è affetto dal morbo di Parkinson (malattia che lo porterà alla morte il 2 maggio del 1979, nella sua casa di Bergamo) e ha difficoltà a muoversi. Per questo, quell’unica volta nella storia dei Nobel, è Gustav VI Adolf di Svezia che si avvicina per consegnargli il premio e congratularsi con lui. Il pubblico scoppia in un fragoroso applauso.
Nonostante la malattia ne abbia da ultimo rallentato il corpo, il pensiero di Natta è sempre stato scattante, portandolo a essere il solo italiano a meritare il premio Nobel per la chimica, condiviso con il collega Karl Ziegler. Il frutto della sua scoperta, che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione, è ovunque intorno a noi: il polipropilene isotattico altro non è infatti che la plastica, utilizzata per gran parte degli oggetti che usiamo ogni giorno.
La storia di Giulio Natta ha inizio il 26 febbraio 1903 a Porto Maurizio, in Liguria, ed è la storia di una mente brillante, dedita al lavoro e, soprattutto, veloce. All’età di sedici anni è già iscritto all’Università di Genova per seguire il biennio propedeutico di matematica e a ventuno si laurea in Ingegneria industriale chimica al Politecnico di Milano. Per lui questa materia è una passione innata: ancora studente, costruisce nella sua abitazione di Milano un piccolo laboratorio dove condurre esperimenti. Al Politecnico testa addirittura gli effetti dell’yprite, un gas vescicante utilizzato nel corso della prima guerra mondiale, sulla pelle del proprio polso, per anni poi segnato da piccole cicatrici. Nello stesso periodo, per seguire più da vicino le sue ricerche, sistema una branda in un laboratorio dell’Istituto di Chimica generale.
Dopo la laurea, Natta intraprende subito la carriera universitaria e svolgerà gran parte del suo lavoro al Politecnico di Milano, dove insegnerà dal 1938 al 1973. La sua passione resterà sempre centrale nella sua vita, tanto da spingerlo a lavorare persino in vacanza. Nonostante sia un uomo molto timido e riservato, Giulio Natta ama infatti circondarsi di colleghi e collaboratori anche durante le sue ferie in montagna o al mare. Quando in estate la famiglia Natta migra nella casa di Champoluc, gli assistenti lo raggiungono, non solo per lavorare, ma anche per unirsi al professore nella raccolta di funghi e nella pesca. A pranzo e a cena in casa Natta ci sono sempre ospiti: gli assistenti più giovani restano fino a tarda notte, alla luce della lampada accesa sul tavolo di noce del professore, a discutere degli esperimenti. Con altri professori, sia italiani che stranieri, le cene sono invece più ufficiali: il chimico tedesco Ziegler, con cui Natta dividerà il Nobel, è un ospite frequente. Comunque, l’ingegno e il lavoro del chimico non si fermano neanche mentre le amiche di famiglia giocano a canasta in salotto, le cameriere preparano gli aperitivi e i bambini giocano scivolando sulla ringhiera della scala. Perfino l’annuncio del Nobel arriva mentre la famiglia Natta è in vacanza sul mare, nella casa di Sanremo.
La prima lampadina sullo studio del polipropilene si accende nella mente di Natta nel 1952, quando viene a conoscenza degli studi sulla polimerizzazione dell’etilene compiuti da Karl Ziegler al Max-Planck-Institut für Kohlenforschung di Mülheim. Mettendo a punto l’utilizzo del catalizzatore di Ziegler, Natta riesce negli anni successivi a ottenere un nuovo prodotto cristallino. E il 10 marzo 1954, nei laboratori del Politecnico di Milano, il chimico annota: «scoperto il polipropilene». Sarà proprio la decifrazione del processo chimico della polimerizzazione stereospecifica e, di conseguenza, di una classe completamente nuova di composti macromolecolari cristallini di enorme interesse scientifico e applicativo, a valergli il premio Nobel.
L’invenzione riesce ad avere un grande impatto grazie all’industria Montecatini, che avvia la produzione commerciale del materiale nel 1957 sotto il nome di Moplen, sfruttando l’estrema versatilità di questo polimero. Per Natta, del resto, la scienza chimica è un unico processo, che parte dallo studio delle molecole in laboratorio per arrivare all’impianto industriale. Questa visione d’insieme gli consente di ottenere risultati eccezionali in tempi molto brevi. Ancora una volta, la sua mente corre veloce. E così continuerà per tutti gli anni del suo lavoro: dopo la scoperta della polimerizzazione stereospecifica del propilene, osserva che sarebbe stato possibile ottenere degli elastomeri (polimeri con proprietà elastiche) tramite specifici procedimenti chimici. Pochi giorni dopo viene realizzato in laboratorio il primo copolimero etilene-propilene, di cui vengono accertate le proprietà elastiche. In un’altra occasione Natta decide di cercare un polipropilene cristallino diverso dal polipropilene isotattico, ossia il polipropilene sindiotattico, la cui esistenza era solo ipotizzata. Anche in questo caso, dopo pochi giorni, il nuovo polimero viene identificato e, a pochi mesi di distanza, riesce a sintetizzarlo.
Nel frattempo, anche la produzione del polipropilene isotattico nel mondo cresce velocissima, fino ad arrivare, oggigiorno, a sessanta milioni di tonnellate l’anno. Un materiale destinato al successo, dunque, che sin dai primi anni Sessanta ha suscitato anche grande entusiasmo mediatico. Restano celebri i tormentoni di Gino Bramieri durante il Carosello: «Signora guardi ben che sia fatto di Moplen!» e «E mo’, e mo’…Moplen!».
Credits immagine di copertina: Wikipedia
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