Martin Luther King e l’omicidio di George Floyd: le nostre vite finiscono il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano

Martin Luther King e l’omicidio di George Floyd: le nostre vite finiscono il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano

di Alice Zaio, 5C, Istituto Cellini, Valenza

Questo saggio partecipa al concorso Hansel e Greta. Il vincitore verrà designato sulla base del numero di “Like” ricevuti e della valutazione da parte di una giuria di qualità. Le votazioni partiranno il 15 giugno 2020.

Martin Luther King ottenne il premio Nobel per la pace nel 1964, dopo anni di lotte contro la segregazione razziale. Un tempo questo termine indicava il divieto per gli afroamericani di accedere a strutture pubbliche e quartieri destinati ai bianchi. Oggi si riferisce alla discriminazione di persone di colore.

Martin Luther King nacque nel 1929 ad Atlanta, negli Stati Uniti. A 25 anni diventò pastore e assunse un ruolo preminente nel movimento contro la segregazione razziale delle persone di colore statunitensi (NAACP). Nel 1955 assistette al caso Rosa Sparks: una donna di colore rifiutò di cedere il proprio posto su un bus ad un bianco. In seguito all’arresto della donna, la comunità afroamericana smise di utilizzare gli autobus, che rimasero quasi completamente vuoti.  Questa protesta pacifica lo vide fautore del principio della non violenza. Oltre al premio Nobel, ottenne diversi riconoscimenti: il periodico “Time” lo qualificò “uomo dell’anno”, l’Università Yale gli consegnò una laurea ad honorem mentre il “Consiglio di Chicago per la cooperazione tra razze” lo insignì del premio J. Kennedy. Tuttavia, erano molte le voci contrarie al suo operato, infatti fu vittima di tre attentati. La nota setta razzista Ku Klux Klan minacciò il pastore piantando una croce in fiamme presso la sua abitazione. Dopo numerose minacce di morte, Martin Luther King pronunciò il suo ultimo discorso: “Avrei voluto vivere a lungo, ma compiere il volere di Dio è più importante: io non ho paura, perché la lotta per la parità dei diritti non si fermerà con un omicidio”. Fu ucciso con un colpo di fucile alla testa il 4 aprile 1968.

Non avrei voluto vedere un episodio simile mai più. Eppure, a Minneapolis il 25 maggio 2020 un uomo afroamericano di nome George Floyd è stato trucidato da un poliziotto bianco che gli ha premuto il ginocchio sul collo per diversi minuti fino a soffocarlo. Prima di morire, George Floyd aveva ripetuto svariate volte “I can’t breathe” ovvero “non riesco a respirare”. Era sdraiato a terra, ammanettato, non aveva opposto resistenza durante l’arresto. Vari video di testimoni hanno reso questo episodio virale. I quattro agenti responsabili sono stati licenziati, mentre l’opinione pubblica e le istituzioni si sono schierate con la vittima. Il sindaco di Minneapolis Jacob Frey ha scritto “essere nero negli Stati Uniti non dovrebbe essere una sentenza di morte”. Da questo evento sono scaturite proteste durante le quali i manifestanti mostravano cartelloni su cui si leggeva “la vita dei neri è importante”. Citando le parole di Martin Luther King “una rivolta è in fondo il linguaggio di chi non viene ascoltato”. Purtroppo, questa è solo l’ennesima violazione dei diritti umani dei cittadini afroamericani: nel 2014, Eric Garner era stato ucciso per soffocamento da un agente di polizia durante l’arresto.

56 anni dopo il premio Nobel a Martin Luther King, la lotta per la parità di diritti non è terminata. Se non facciamo nulla per migliorare questa situazione, siamo responsabili di quello a cui porta tanto quanto le persone che l’hanno causata. In un discorso emblematico che conteneva la frase “I have a dream”, M. L. King disse: “io ho un sogno, che i miei figli vivranno un giorno in una nazione dove non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere”.

Dal 1964 il mondo ha compiuto enormi passi avanti. Sebbene la strada verso l’uguaglianza sia costellata da difficoltà, giungeremo alla meta.

Credits immagine: Robert Abbott Sengstacke/Getty Images