Cifra 0
di Arianna d’Ottone Rambach
Holmes examined it for some time, and then,
Folding it carefully up, he placed it in a pockect book:
“This promise to be a most interesting and unusual case”
Nel racconto “L’avventura degli omini danzanti” (1905) di Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes si misurava con un messaggio cifrato monoalfabetico svelandone il significato.
Al cinema, la pluripremiata commedia di Carlo Verdone “Un sacco bello“, impiegava nel titolo una espressione familiare – un sacco per dire molto – paragonabile a una cifra per dire tanto. A livello gergale una cifra indica infatti una gran quantità.
Eppure, alle origini di questa parola italiana, dall’estesa gamma semantica – con cifra si indica, per esempio, un tratto di stile peculiare nell’opera di uno scrittore o un artista, e, il plurale cifre, è usato, per le iniziali di un nome ricamate sulla camicia – vi è il concetto diametralmente opposto a quello di gran quantità ovvero: il vuoto. Ripercorrendo l’etimologia dell’italiano cifra – dal latino medievale cifra(m) – si passa inevitabilmente per l’arabo – ṣifr/zero – per arrivare all’originale sanscrito ṡūnya ovvero nulla. Per quanto non si tratti della trasformazione alchemica che converte il metallo in oro, certamente nel passaggio tra lingue, alfabeti e culture il nulla ha preso il senso di molto.
Sebbene i numeri siano generalmente associate ai calcoli, esistono anche “testi cifrati”. In questo caso l’espressione rinvia ad un particolare tipo di trasformazione, ovvero la trasformazione di un messaggio in chiaro che, tramite l’impiego di determinati simboli – la cifra, per l’appunto – assume un aspetto criptico.
La crittologia è la disciplina che studia le tecniche con cui creare (crittografia) e svelare (crittoanalisi) i sistemi che consentono di passare da un messaggio in chiaro a un messaggio cifrato e viceversa.
La crittologia è nata nel mondo arabo-islamico. I primi a interessarsi alla crittologia, a scoprirne i metodi e a metterli per iscritto sono stati degli studiosi arabo-musulmani a partire dalla metà del secondo secolo dell’Egira (fine IX secolo AD). A Ibn Wahshiyya (fl. IV sec. AH/AD X), la cui esistenza storica necessita ancora di conferme, viene attribuito un trattato intitolato “Bramosia del pazzo d’amore di conoscere i simboli dei caratteri” (in arabo: Kitāb shawq al-mustahām fī ma‘rifat rumūz al-aqlām).
Nel trattato di Ibn Wahshiyya sono illustrati un certo numero di alfabeti cifrati tradizionali come “l’alfabeto di Davide” – dal nome del re d’Israele – sviluppato a partire dall’alfabeto ebraico. L’autore della “Bramosia del pazzo d’amore” attribuisce, poi, a dotti del passato dai nomi di ascendenza latina o greca, ma non identificabili con alcun personaggio storico noto, altri cifrari come l’alfabeto di Saywaryānūs o quelli di Qalfaṭrayūs – che potrebbe essere una distorsione del nome di Cleopatra (Qulūbaṭra).
Un altro esempio di testo crittato è un Corano.
L’unico esemplare noto di Corano criptato si trova oggi presso la biblioteca della School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra.
Già alla fine del Settecento l’allure enigmatica del testo aveva spinto William Marsden, il primo proprietario del volume, a rivolgersi all’illustre linguista Sir Wiliam Jones per cercare di capire di cosa si trattasse. Lo scambio epistolare avvenuto con Jones, attesta che questi fosse stato sorpreso dalla scrittura impiegata per il testo che, stando a quanto riferito da alcuni “nativi”, era più antica di alcune delle più antiche forme di scrittura araba, il cufico. Persuaso si trattasse del Corano in arabo, Jones non fornisce però la chiave della cifra e si limita a trascrivere un estratto coranico che potrebbe corrispondere in toto – o anche no – al testo criptato che resta tale agli occhi dei suoi lettori.
Oggi possiamo dire che si tratta di un testo coranico criptato attraverso un sistema di sostituzione semplice fondato su un alfabeto cifrato per il quale è stato possibile definire chiaramente le equivalenze tra le lettere. Il risultato è una forma semplice di sostituzione monoalfabetica – la cui criptoanalisi risulta relativamente agevole da risolvere.
L’uso di una scrittura cifrata si può paragonare a quello di una lingua (scritta) vera e propria e condividere gli stessi scopi di quelli di una lingua inventata. Uno studioso che si è occupato della scrittura Khojkī – una scrittura impiegata da un particolare gruppo di musulmani ismailiti localizzato nelle regioni del Sind, Gujarat e Punjab – ha sottolineato come “l’uso di una scrittura non convenzionale sia funzionale alla circolazione di testi religiosi all’interno di una determinata comunità, proteggendo quest’ultima dalle persecuzioni di esterni non allineati con le dottrine e le pratiche da essa adottate“. La scrittura Khojkī sarebbe dunque servita da “lingua segreta” impiegata per nascondere pensieri di natura estremamente esoterica alla gente comune. D’altra parte, la stessa scrittura araba, impiegata dai Moriscos per la redazione di documenti in aljamiado era da un lato funzionale all’occultamento dei loro testi e, dall’altro, l’uso dell’alfabeto arabo in un contesto allografico – ovvero per la scrittura di un’altra lingua – è stato ricollegato a ragioni di mantenimento dell’identità di minoranze religiose o linguistiche. In qualche modo illusorio era, infine, l’uso dell’alfabeto e della lingua araba, con finalità di eludere a censura, nella comunicazione epistolare diretta in Italia alla fine del Settecento. Le lettere, anche quelle in arabo, non sfuggivano infatti alla fitta rete di controlli messa in atto dalla curia romana dove le missive venivano deliberatamente aperte, controllate, lette e, all’occasione, riassunte in italiano.
Appare utile, a questo punto, ricordare ciò che Alessandro Bausani ha scritto della lingua segreta nota col nome di Bāl-a i-balan (Linguaggio del Vivificatore) – una lingua religiosa inventata, nel XV/XVI secolo in Persia, creata da una singola persona che ha poi invitato altri a contribuire inventando nuove parole. Lo scopo principale di questa lingua era, secondo l’islamista, duplice: pratico e teorico assieme. Dal punto di vista pratico, l’impiego del Bāl-a i-balan permetteva di scampare a persecuzioni, promosse da parte di ortodossi, contro dottrine considerate blasfeme. Dal punto di visto teorico, il suo uso si collega a quello del linguaggio religioso. Nel mondo islamico la lingua religiosa par excellence è l’arabo classico. Tuttavia, in alcuni contesti eterodossi si era fatta strada e aveva trovato eco l’idea che una ulteriore lingua misteriosa, dotata di poteri magici, dovesse esistere. Ora, poiché nelle più antiche frange sciite, e in alcuni circoli mistici, l’uomo che incarna la manifestazione di Dio era/è ritenuto ben superiore ai profeti, non sorprende che possa insegnare una nuova lingua ai suoi adepti.
La pratica di questo doppio livello di lettura previsto per uno stesso testo è testimoniato da diversi casi. In una nota apposta in un codice yemenita, per esempio, si invita il lettore che desideri cogliere il senso più profondo del testo a seguire le indicazioni contenute in un fascicolo iniziale – fascicolo iniziale che, però, in questo caso non è più conservato.
In questo senso l’enigmatico aspetto del Corano della SOAS rappresenta una combinazione di segretezza e di verità profonda. Il risultato di questa formula? Un Corano crittato.
Su tutt’altra e diversa nota, è il caso di dirlo, sono le rime del testo di Algoritmo – di Willie Peyote, che canta:
“Io le mie emozioni le ho criptate / le ho nascoste tipo in codice le hai decifrate / la mia chiave era segreta ma tu sei un hacker / per la mia dieta sei una torta sacher”.
Immagine in evidenza: esempio di testo arabo-islamico crittato
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