Covid-19, le conseguenze sui pazienti guariti possono riguardare anche il disturbo post-traumatico da stress
In Cina, un team di ricercatori ha condotto uno studio di imaging cerebrale per valutare l’insorgenza del disturbo post-traumatico da stress (Ptsd) in un gruppo di pazienti guariti da Covid-19. I risultati sono pubblicati sulla rivista Molecular Psychiatry
È stata la guerra del Vietnam (1955-1975) a portare all’attenzione dell’opinione pubblica il disturbo post-traumatico da stress, ossia l’insieme delle sofferenze psicologiche che derivano da un evento traumatico, inizialmente riscontrate, per l’appunto, nei soldati coinvolti nei combattimenti.
Anche la pandemia di Covid-19, senza dubbio, può essere annoverata tra gli “eventi traumatici”, e, in quanto tale, sottopone la popolazione mondiale a uno stress persistente che rischia di compromettere la salute mentale in una prospettiva a lungo termine. A soffrire di più sono i soggetti vulnerabili, e tra questi i sopravvissuti all’infezione da Sars-Cov-2 che, dopo la guarigione, possono andare incontro a un disturbo post-traumatico da stress.
Un gruppo di ricercatori dell’Institute of Psychology di Pechino, in collaborazione con altri istituti cinesi, ha indagato questo aspetto in un campione di persone sopravvissute alla malattia nel periodo compreso tra aprile e agosto del 2020. Gli autori hanno condotto uno studio suddiviso in due sessioni: una a distanza di tre mesi dalla dimissione dall’ospedale e un’altra tre mesi dopo (quindi a sei mesi dalla dimissione) per valutare se il Ptsd avesse effetti a lungo termine sui pazienti.
Per la prima sessione gli studiosi hanno convocato 126 volontari adulti guariti da Covid-19 e altrettanti che non avevano contratto l’infezione, e li hanno sottoposti a un questionario di autovalutazione. Il test si basa sui criteri del Manuale diagnostico dei disturbi mentali (Dsm-5) e prevede l’assegnazione di un punteggio che fornisce una misura dell’intensità del disturbo. Alla seconda sessione ha partecipato circa la metà dei volontari precedenti. Dopo la somministrazione del test, gli autori hanno eseguito scansioni del cervello dei volontari mediante risonanza magnetica strutturale (sMri) e funzionale (fMri) per misurare rispettivamenteil volume di materia grigia e l’attività cerebrale di due regioni chiave del Ptsd: l’ippocampo e l’amigdala, implicate nella codifica delle memorie emotive.
Il fatto che oggi siamo in grado di vedere cosa accade nel cervello in tempo reale con tecniche non invasive è merito soprattutto del fisico inglese Peter Mansfield e del chimico americano Paul C. Lauterbur, che hanno contribuito allo sviluppo della Mri, una tecnica che utilizza un campo magnetico per produrre immagini ad alta risoluzione degli organi e dei tessuti del corpo. Lauterbur, in particolare, ha sviluppato un metodo per generare le prime immagini in 2D introducendo i gradienti nel campo magnetico; Mansfield, invece, ha introdotto un metodo matematico per effettuare la scansione in pochi secondi. Per aver aperto nuovi orizzonti nella ricerca e nella diagnostica, i due scienziati hanno vinto il premio Nobel per la medicina nel 2003.
Ma torniamo ai risultati dello studio. Dal questionario è emerso che i soggetti guariti mostrano più sintomi riconducibili al Ptsd rispetto ai controlli; inoltre, coloro che hanno partecipato a entrambe le sessioni hanno mostrato un incremento di circa il 20% del loro punteggio. Questo significa che con il passare del tempo i sintomi di Ptsd sono diventati più severi.
Le scansioni ottenute con la Mri hanno rivelato che il volume della materia grigia nelle due regioni indagate era maggiore nei pazienti guariti rispetto ai controlli e che queste aree risultavano più attive. Questo dato è in contrasto con gli studi in letteratura che riportano una diminuzione del volume dell’amigdala e dell’ippocampo in pazienti con Ptsd. L’apparente incongruenza può essere interpretata così: la pandemia di Covid-19 è un evento traumatico ancora in corso; i sopravvissuti al contagio possono ancora fare esperienza di sentimenti negativi che possono indurre l’iperattivazione dell’amigdala e dell’ippocampo. L’aumento del volume della materia grigia in queste regioni, invece, può essere una compensazione funzionale per far fronte allo stress acuto.
Occorrono ulteriori studi per confermare questi risultati e approfondire il decorso del disturbo su un campione di volontari più grande.
Immagine in evidenza: {pexels.com}
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