Da enfant prodige a fisico trascendentale, il premio Nobel per la fisica Brian David Josephson
Grazie ai suoi brillanti studi, Brian David Josephson riuscì a teorizzare le proprietà dei superconduttori. In particolare, il fenomeno che porta il suo nome, e che gli valse il premio Nobel per la fisica nel 1973
Era il 1961 quando Brian David Josephson, all’epoca appena ventiduenne e ricercatore al Royal Society Mond Laboratory di Cambridge, incominciò a studiare le reazioni e le proprietà dei superconduttori. La sua curiosità esplose quando Philip W. Anderson, il fisico americano che in quel periodo insegnava all’università, introdusse il concetto di “broken simmetry”. Affascinato da questa idea volle osservarla sperimentalmente, supportato dal suo supervisore Brian Pippard: in questo modo, notò che una supercorrente poteva scorrere tra due superconduttori separati da un sottile strato isolante (i superconduttori sono materiali che trasmettono elettricità senza alcuna resistenza, permettendo quindi alla corrente di scorrere senza alcuna perdita di energia). Fu proprio Pippard a convincere Josephson a focalizzarsi sulla misurazione di questa supercorrente, e sulle caratteristiche della giunzione. Proseguendo con le analisi e i calcoli, arrivò nel 1962 alla stesura dell’equazione ‒ successivamente chiamata equazione Josephson ‒ con la quale stabilì che la corrente può scorrere attraverso la giunzione (due strisce di superconduttori separate da un isolante), senza tensione ai capi, fino a una corrente massima.
Nato a Cardiff il 4 gennaio 1940, Josephson è l’unico gallese ad aver vinto il premio Nobel per la fisica. L’enfant prodige reso celebre dalla sua scoperta nel mondo della fisica quantistica trascorse la sua vita nell’università di Cambridge, con una parentesi di un anno in Illinois per un post-doc. Nel 1974 ricevette l’incarico di professore a tempo pieno in fisica, posizione che mantenne fino al 2007, quando si ritirò.
Conosciuto come uno studente brillante ma molto timido, così timido da non stringere la mano a sua maestà il re Carlo XVI Gustavo di Svezia durante la premiazione per il Nobel, lasciando il sovrano con la mano tesa. Timidezza che passò in secondo piano quando John Bardeen, uno dei più rinomati fisici americani ‒ e del mondo ‒, vincitore di due premi Nobel, si oppose alla sua teoria del 1962. Questo astio si accese all’ottava International Conference on Low Temperature Physics: mentre Bardeen parlava sul palco, il giovane Josephson, ancora studente, si alzò in piedi e lo interruppe accendendo il dibattito.
Nei primi anni settanta si interessò alla meditazione trascendentale e al vedismo, che lo porterà, dopo la vittoria del Nobel, a lavorare più liberamente in aree scientifiche meno ortodosse. Infatti, iniziò a studiare le relazioni tra meccanica quantistica e coscienza, istituendo il progetto Mind-Matter Unification presso il laboratorio Cavendish a Cambridge; diventò un forte sostenitore di teorie come la parapsicologia, la memoria dell’acqua e la fusione fredda. Tutto ciò fece storcere il naso alla comunità scientifica, provocando pesanti ripercussioni alla credibilità di Josephson.
Oggi, a 81 anni, Josephson continua a sostenere le sue idee. In una recente intervista, ha espresso il suo punto di vista sulla comunità scientifica: “è un po’ come un club, nel quale ci sono delle regole e queste regole vanno rispettate. Ad esempio, non puoi assolutamente esprime il tuo supporto per il disegno intelligente, la memoria dell’acqua o l’omeopatia, altrimenti sei fuori”.
Immagine in evidenza: Liam Woon / National Portrait Gallery, London
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