Guardare toccare
Quali sono i batteri che si nascondono su di esse? possono influire sul deterioramento dell’opera? Teresa Rinaldi ci racconta della sua ricerca sui batteri presenti sulla statua greca “il Giovane di Mozia”.
di Teresa Rinaldi
Era una notte buia e tempestosa… no, non è vero, era una meravigliosa giornata di settembre del 2016. Mi trovavo a Mozia, una piccola isola piena di misteri dove iniziavo la mia prima esperienza come biologa a supporto di una missione archeologica della Sapienza. Nell’isola i cantieri di scavo sono interrotti solo dai filari dell’uva grillo e da alcune abitazioni, una delle quali è sede del museo Whitaker che ospita una statua greca di rara bellezza, “il Giovane di Mozia” rinvenuta nel 1979. La statua è stata realizzata in marmo pario e raffigura probabilmente Melqart/Herakles nella sua accezione di “auriga divino”. Non è in perfette condizioni perché manca dei piedi e delle braccia ed è stata danneggiata in più parti, forse in occasione dell’assedio della città fenicia di Mozia da parte di Dionisio di Siracusa nel 397 a.C. Un giorno, mentre ammiravo i dettagli del giovane di Mozia, catturata dall’effetto trasparenza della tunica plissettata, ho notato due turiste toccare la statua. Mi sono subito chiesta se tutte le persone che come loro avevano toccato la statua, avevano lasciato delle tracce. Per questo, con Lorenzo Nigro, professore di archeologia della Sapienza, abbiamo pianificato uno studio microbiologico con l’obiettivo di isolare i batteri che si trovano sulla superficie della statua. Volevamo sapere se i microorganismi che di solito sono presenti sulle nostre mani (il microbiota della pelle) fossero presenti sulla statua e se le parti del marmo più danneggiate ospitassero batteri differenti rispetto alle zone perfettamente conservate. Fino ad oggi, l’incontro tra la microbiologia ed i beni culturali è stato collegato alla problematica del biodegrado, ovvero al tentativo di eliminare una comunità microbica che ha causato un danno colonizzando monumenti, statue, manufatti, libri, pergamene, statue lignee, e molto altro ancora (dimenticavo… le mummie!).
Raramente però sono stati effettuati studi microbiologici su opere d’arte senza attacco biologico. Oggi grazie all’evoluzione delle tecniche scientifiche si può individuare l’intera comunità microbica che si trova su qualsiasi tipo di manufatto, anche se non è visibile ad occhio nudo. Infatti, quando in un’opera d’arte una crescita microbiologica è visibile spesso è troppo tardi.
Dopo un campionamento non invasivo, è possibile estrarre il DNA del campione e identificare le specie batteriche e fungine presenti. Questa informazione però non ci dice se i batteri sono attivi metabolicamente, cioè se sono vivi e possono danneggiare il marmo. Abbiamo individuato e campionato le zone che venivano toccate dai turisti e abbiamo elaborato un’analisi microbiologica nel 2019, ripetuta nel 2020, utilizzando differenti terreni di crescita per selezionare i microorganismi presenti in zone danneggiate e zone in perfetto stato di conservazione del Giovane di Mozia.
Tutti i batteri cresciuti su piastre con differenti terreni nutritivi sono stati ordinati ed osservati al microscopio, selezionati e studiati singolarmente. Questa parte degli esperimenti l’ho svolta durante il periodo di lockdown nel salotto di casa in cui avevo allestito il mio laboratorio di emergenza. Nessun contaminante è cresciuto nelle piastre e tutto il tempo che ho dedicato a questi batteri non è stato inutile. Dopo la selezione sono rimasti circa 40 ceppi batterici differenti che sono stati identificati grazie alla sequenza di un gene specifico che permette di individuare il genere e la specie batterica (nessuna muffa è stata identificata dalla statua). Sul Giovane di Mozia abbiamo individuato specie batteriche che normalmente sono presenti sulla nostra pelle, e abbiamo isolato batteri che metabolizzano il carbonato di calcio (il marmo è carbonato di calcio) solo dalle zone più danneggiate della statua.
Le specie batteriche tipicamente presenti sulle nostre mani e che abbiamo isolato dalla statua hanno mostrato un’ampia capacità di produzione di sostanze acide che sciolgono velocemente il carbonato di calcio. Quindi toccare la superficie della statua e lasciarci i nostri batteri potrebbe danneggiarla. Per questo motivo nella collocazione attuale della statua i turisti non possono più avvicinarsi e tutti gli interventi legati alla manutenzione sono attuati con dispositivi di protezione individuale.
Tutti gli altri batteri trovati sulla statua appartengono al gruppo dei Bacilli, cioè batteri in grado di vivere ovunque sulla Terra (e anche sulla Stazione Spaziale Internazionale, a dire la verità) perché producono le spore. Le spore del genere Bacillus sono delle forme quiescenti batteriche che possono rimanere inattive finché le condizioni ambientali non diventano adatte per la germinazione e nuova crescita del batterio. Tutte le specie di Bacilli presenti nelle zone danneggiate della statua erano in grado di metabolizzare il carbonato di calcio. Al contrario, le specie di Bacilli trovate nelle zone in ottimo stato di conservazione non avevano questa capacità.
Quindi possiamo dire che sono i batteri che stanno “dissolvendo” il marmo in alcune zone? No, ma possiamo affermare che nelle zone danneggiate sono presenti specie batteriche che hanno la capacità metabolica di farlo. Infatti, è molto probabile che sulla statua sono presenti le spore di questi bacilli e non i batteri in fase attiva di crescita. Quindi possiamo concludere che le condizioni di temperatura e di umidità devono rimanere costanti per mantenere in equilibrio la comunità microbica della statua, sperando che le spore decidano di non attivarsi, formare nuovi batteri e sciogliere il marmo!
Questo è il lieto fine della storia? E tutti i batteri vissero felici e contenti addormentati sulla statua? Beh, no, perché a vedere le microfratture in alcuni punti della statua viene voglia di colmare quei micropori. Vi rassicuro subito, quello che sto per presentarvi è ancora in fase di studio in varie parti del mondo, ma l’Italia è uno dei Paesi leader nelle applicazioni di biorestauro e bioconsolidamento.
Nell’ottica di non introdurre specie batteriche non “autoctone”, noi preferiamo esperimenti in cui sono impiegati i batteri isolati dal bene culturale che si vuole restaurare, per poi indurli a produrre carbonato di calcio come bioconsolidante. I nostri esperimenti utilizzano alcuni dei Bacilli selezionati dal “Giovane di Mozia” ma anche dalle tombe etrusche di Tarquinia in cui stiamo studiando in situ interventi di bioconsolidamento. Un aspetto interessante è che il carbonato di calcio prodotto dai batteri ha delle caratteristiche diverse dal carbonato abiogenico e può essere impiegato in molti settori biotecnologici, non solo nell’ambito dei beni culturali ma anche, per esempio nel settore biomedico. Certamente le quantità di carbonato di calcio che i batteri producono sono irrisorie rispetto alla produzione industriale, ma questi batteri sono “green” perché producendo carbonato di calcio sequestrano anidride carbonica!
Teresa Rinaldi, chimica e biotecnologa delle fermentazioni, professoressa della Sapienza Università di Roma.
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