I faraoni della Sapienza

I faraoni della Sapienza

Con Lorenzo Nigro

di Sofia Gaudioso e Mattia La torre

Il museo del Vicino Oriente, Egitto e Mediterraneo è un luogo unico e ricco di reperti dove immergersi nelle culture che hanno fatto la storia della nostra civiltà. Ma anche un luogo di ricerca e di produzione scientifica. Qui hanno spazio l’archeologia e le scienze dure come la chimica la fisica e le scienze della vita. Ma anche la tecnologia grazie alla quale è stata realizzata una fedele riproduzione del corpo imbalsamato di Ramses II pezzo centrale della mostra oggi in esposizione presso il museo. Di questo ma anche delle numerose missioni archeologiche della Sapienza ne parliamo con Lorenzo Nigro archeologo e Professore ordinario della Sapienza Università di Roma. 

Qual è la storia del museo? 

Questo è un museo che ha molti anni. È nato nel dopoguerra da due grandi fondatori: Sergio Donadoni e Sabatino Moscati. Studiosi nel campo orientalista entrambi si sono dedicati all’apertura della Sapienza a ricerche che si facevano in Egitto e nel Vicino Oriente, svolte in una prospettiva totalmente nuova e post-coloniale e cioè in collaborazione con gli Stati luogo delle missioni. Le attività di ricerca in questo ambito sono diventate sempre più numerose e importanti per cui hanno ricevuto dei doni, dei materiali da esporre, da studiare e delle repliche di cui alcune molto importanti che costituiscono la collezione che osservate oggi. Il museo consente di vedere la storia del Vicino Oriente e dell’Egitto con la caratteristica importante che tutti i reperti si trovano in un’unica grande sala. È così dal 2015 quando grazie al volere del rettore Luigi Frati è stata scelta una nuova sede per il museo. La decisione di utilizzare il colore bianco per la sala non è casuale ma serve a far risaltare il colore caldo dei reperti così come la scelta di avere un unico grande spazio in cui vedere più civiltà che sono vissute insieme. In questo modo infatti è più facile comprendere come tutte queste culture sono vissute insieme e come si sono scambiate degli input. Questa stessa comprensione non è possibile nei musei coloniali e ricchissimi di capolavori, come il Louvre o il British Museum, dove non si ha il tempo di visitare più sale e quindi più civiltà.  

La riproduzione della mummia è stata creata in collaborazione con Saperi&Co ed è nata l’idea da un lavoro di tesi di una dottoranda.

Che tipo di attività vengono svolte all’interno del museo? 

Questo è un museo dove gli studenti e i dottorandi vengono a studiare e dove si fa molta ricerca anche interdisciplinare. Infatti, le scienze dure come la chimica, la fisica e le scienze della vita sono fondamentali ad esempio il materiale organico, il riconoscimento del Dna e il tracciamento di tutti gli esseri viventi forniscono delle informazioni straordinarie. Qui facciamo un po’ di tutto dalla ricerca fino alle attività di outreaching. Organizziamo diversi eventi, mediamente una grande mostra l’anno più altri infiniti eventi di natura scientifica e divulgativa. Il museo, infatti, partecipa alla notte dei musei, al maggio museale e devo dire che è sempre sulla cresta dell’onda. Qui, inoltre, si ricevono numerose scuole. Il museo è molto amato dai piccoli e questo per me è una grande gioia perché i bambini delle elementari rappresentano quei semi che piantiamo e che un giorno, quando sbocceranno, saranno in questa università. 

Come è stata realizzata la mostra “La mummia di Ramses – il faraone immortale”?

La mostra rappresenta il frutto di un lavoro congiunto tra varie professionalità. Abbiamo lavorato con il Fabrication Lab di Saperi&Co con cui collaboriamo strutturalmente e dove possiamo testare diverse cose tra cui realizzare le copie dei reperti. A Saperi&Co abbiamo fatto veramente tanto e questo è risultato in una numerosa produzione scientifica. L’utilizzo della fotogrammetria ci permette di fare delle copie e quindi di passare da una fruizione puramente visiva verso una fruizione più completa. Ci sono alcuni ambiti come la statuaria in cui mettere le mani addosso a un capolavoro ci sembra una cosa sconvolgente ma serve ad avere un altro livello di comprensione.  Questa mostra è una sfida nata quasi per caso perché è nata da una dottoranda che stava studiando come riprodurre una pellicola che somigliasse a una pelle, quando ho visto questa pellicola ho pensato che somigliasse alla pelle delle mummie e così è nata l’idea di fare una replica. Abbiamo scelto la mummia più famosa quella che tutti conoscono e abbiamo deciso di realizzarla con delle tecniche che non prevedessero l’uso di materiali inquinanti o plastici.  Il progetto è stato ideato in un bando di terza missione però ha degli aspetti scientifici importanti sia dal punto di vista della sua creazione che della sua conservazione. Produrre la pelle non è stato semplice perché è difficile stabilizzare materiali come la nanocellulosa. Una sfida di adesso è conservarla per via dell’interazione con gli umani.  È interessante capire cosa produce l’interazione tra il bioma umano e le opere d’arte. Dagli studi fatti per produrre questa replica sfoceranno pubblicazioni scientifiche che serviranno per la conservazione delle vere mummie e di tutti i reperti organici che hanno gli stessi problemi. Un’altra sfida era realizzare questa mummia senza avere accesso all’originale. Abbiamo voluto riprodurla come quando è stata scoperta e quindi vediamo Ramses come lo hanno visto quelli che l’hanno scoperto per la prima volta e rivivere l’emozione di chi lo ha visto per la prima volta e ha capito chi fosse. Per fare questo abbiamo utilizzato le foto in bianco e nero del momento del ritrovamento di Ramses, su queste abbiamo costruito un modello tridimensionale.  Abbiamo creato anche un ambiente espositivo legato alla battaglia di Qadesh che è il principale evento della storia politica del lunghissimo Regno di Ramses II.  

Oggi l’intento è di creare delle esperienze immersive per i visitatori e di coinvolgerli fisicamente nella mostra.

Qual è l’obiettivo della mostra e che vantaggi dà il contesto della Sapienza? 

Il museo archeologico conserva il passato, lo valorizza, lo fa conoscere e lo trasmette alle generazioni future altrimenti sarebbe perduto dimenticato. Questo è il nostro compito e lo dobbiamo fare il meglio possibile. Credo che la mostra “la mummia di Ramses” sia stata un’occasione ben riuscita che si deve al fatto che Sapienza è una grandissima università dove ci sono tante competenze. Ogni volta che abbiamo avuto un dubbio o un problema abbiamo sempre trovato il collega che sapeva cosa era giusto fare in quella circostanza. Per questo il lavoro è venuto bene. 

Come è cambiata l’esperienza museale?  

Il mondo museale è totalmente cambiato. Oggi l’intento è di creare delle esperienze immersive per i visitatori e di coinvolgerli fisicamente nella mostra. Chiaramente non è che ognuno può fare come vuole perché nel campo dell’archeologia documentiamo cose reali e ci approcciamo ai resti imbalsamati di un essere umano antico e quindi dobbiamo avere delle regole etiche del modo in cui le presentiamo. Ad esempio, adesso diciamo che non le dovremmo più chiamare mummie perché è un’espressione inglese che è un po’ spregiativa e tra l’altro non adatta all’italiano. Se riconosciamo dei diritti a ogni essere umano gli stessi li dovremmo riconoscere anche a quelli del passato. Quindi ad esempio il diritto di essere manipolato il meno possibile nei suoi resti. Da qui nasce la sfida di fare le copie perché le repliche permettono una fruizione e delle caratteristiche espositive che non fanno alcun danno alle vere spoglie. Quella di Ramses II è la prima copia che è stata fatta al mondo di una mummia, ovviamente non di materiale plastico o di cera. 

Che termine usare al posto di mummie?

In italiano abbiamo più parole. Gli inglesi usano corps embalded body che in italiano si traduce in corpo imbalsamato di una persona antica. Ma non mi fermerei al problema terminologico. Li possiamo anche chiamare un mummie ma l’importante è che capiamo il concetto che sono comunque dei resti umani e come tali devono essere trattati. Quindi attualmente la proposta è che quando uno deve interagire con questi resti deve prima sottoporre il proprio progetto a un comitato etico. Inoltre i fruitori dei musei devono essere messi a conoscenza del fatto che stanno andando a vedere le spoglie di un defunto e quindi dovrebbero avere lo stesso rispetto che ad esempio tributiamo alle salme dei santi nelle chiese.  Personaggi come Ramses II infatti sono egualmente degli umani che per altro hanno avuto una vicenda storica e un impatto enorme sulla loro società.  Adesso si sta andando verso un maggiore senso di rispetto.  

Quali sono i reperti più importanti del museo? 

ogni reperto è importante nel suo contesto, nella sua epoca e nel suo universo tematico e storico. Se stiamo studiando la composizione della società cartaginese in Sardegna ci interessa il repertorio delle tombe dei monti sirai oppure l’iscrizione che avevano messo nel tofet. Se invece stiamo studiando come gli esseri umani per la prima volta hanno costruito le loro case dobbiamo andare alla vetrina di Gerico a vedere i primi mattoni. Ogni reperto in sé è importante. Quelli che ci colpiscono di più sono quelli che vanno dritti alla storia con la S maiuscola cioè quella scritta da documenti che consentono di uscire dalla narrazione fatta dall’archeologo sulla base della materialità. C’è una differenza tra una cultura che non ha mai raccontato la sua storia da sé e una cultura come quella dei sumeri e degli egiziani che si sono raccontati la loro storia e che ce l’hanno data anche attraverso fonti dirette cioè dalla tavoletta iscritta o dalla stele del faraone che ci racconta lui in prima persona cosa ha fatto. Da questo punto di vista ci sono dei reperti unici. Per esempio, c’è questo vaso che sembra abbastanza anonimo anche se è fatto di una pietra che imita l’oro lavorata come se fosse ceramica e questo è straordinario. L’orlo di questo vaso riporta l’iscrizione del nome regale del primo faraone della seconda dinastia vissuto nel 2900 a.C. Il documento originale col suo nome, in tutto ce ne saranno 7 8 che sono attestati nel mondo, è molto importante perché con quel tipo di cartiglio si identifica il suo ruolo. Poi nella stessa teca ci sono delle conchiglie che crescono solo nel Nilo e che sono state trovate dalla nostra missione a Gerico. Questo set di conchiglie è eccezionale perché dalle analisi è emerso che erano usate per contenere il biossido di manganese che è il kajal cioè il belletto che mettevano negli occhi. Quindi era un set di trucco che era stato portato dall’Egitto a Gerico in Palestina. Questi sono esempi dei tanti frammenti che sono dei raggi di luce nella storia di un passato molto lontano e averceli da studiare è utile.

Sapienza ha dato un contributo fondamentale all’archeologia, grazie a questa università pratichiamo ricerca sul campo in tanti cantieri molto importanti.

Da dove proviene la collezione? 

Tutti i reperti che noi abbiamo sono stati dati in dono o in prestito o sono delle copie ma comunque nascono dall’azione di missioni finanziate da Sapienza in giro per il mondo. 

Le missioni sono più di 15. Alcune sono storiche e hanno cambiato la storia dell’archeologia come Mozia, Gerico e Ebla. Quello che noi abbiamo in questo museo è niente rispetto a quello che è stato scoperto da queste missioni però è un ricordo dell’impegno scientifico con cui Sapienza ha dato un contributo fondamentale all’archeologia. Grazie a Sapienza pratichiamo ricerca sul campo in tanti cantieri molto importanti. 

Come si svolgono le missioni all’estero?

come ho raccontato in due romanzi c’è sempre la partecipazione di tanti studiosi e studenti inclusi i biologi questo per non limitare la nostra conoscenza a raccogliere reperti ma cercare di ricostruire la vita del passato. Quindi il team degli archeologi è sempre misto con sono esperti di tante cose. Le missioni hanno diversa dimensione e organizzazione a seconda dei contesti in cui operiamo. Per esempio, se operiamo in territori Palestinesi o Sudanesi dove la situazione politica è instabile non possiamo stare con più di una dozzina di persone sul campo. In Sicilia, siamo arrivati ad avere 70 studenti nello scavo. Le missioni sono composte da diverso tipo di personale. Ci sono gli studenti della triennale, della magistrale, gli assegnisti, i dottorandi e gli specializzandi ciascuno con un compito.  Lo scavo dura un mese durante il quale vengono presi i campioni che poi vengono studiati e analizzati dai vari esperti in modo individuale. Quando il quadro incomincia ad assumere ci si rimette tutti insieme per tirare le fila e magari fare un articolo.  Gli studi vengono fatti mettendo un pezzo alla volta con molta pazienza e devo dire col grande impegno anche di tantissimi dottorandi. Anche questa è una cosa positiva, l’università è in grado di mettere persone su queste ricerche.  A Mozia sto cercando di creare un laboratorio aperto a tutti gli scienziati che vogliono studiare queste cose siamo aperti a tutte le discipline e anche a suggerimenti. 

Abbiamo circa 15 missioni all’estero, il team è composto da archeologi e da esperti. Partecipano anche numerosi studenti e dottorandi. L’università è in grado di mettere persone su queste ricerche.

Che progetti avete per il futuro del museo?

Per il futuro del museo dopo questa mostra abbiamo un anno di progetti che sono in corso. Stiamo lavorando a una collezione che abbiamo recuperato a Roma che era della Sapienza e la stiamo restaurando. È una collezione con reperti che provengono dalla Palestina e dall’Egitto, tra cui un vaso con serie crinale cioè il primo faraone. Sicuramente quindi esporremo questa collezione che abbiamo scoperto di avere mettendo in ordine il nostro archivio e trovando una lettera dimenticata degli anni 60 in cui direttore di allora aveva acquistato e dopo una lunga ricerca è stata ritrovata in una cantina di un palazzo dei Parioli.  Poi stiamo progettando anche un’altra mostra molto più immersiva per bambini e la nostra idea è di ricostruire una tomba in un’ala del museo.  Di poterci far entrare i visitatori e poi fagli vedere tutti i reperti che c’erano dentro. Pensavamo anche di allestire una sorta di tomba parallela in cui si può scavare quello che uno vede l’esposizione. Così da far capire ad esempio come si devono scavare ad esempio i resti umani. Perché se si scava male e si muovono i resti prima di averli studiati.   

Che consiglio darebbe a un giovane che vuole intraprendere una carriera nel campo dell’archeologia? 

Gli consiglierei di scegliere e concentrarsi su uno scavo, un’area, una cultura che vuole studiare e di iniziare con un’esperienza diretta sul campo così da acquisire la necessaria sensibilità emotiva. Poi di tornare a studiare ponendosi degli obiettivi alti perché come archeologi non dobbiamo rispondere solo alle domande di base tipo dove vivevano, come morivano come e cosa mangiavano, ma dobbiamo vedere come viviamo noi e porci delle domande in base a questo. Il 16 marzo presenterò un libro qui a Roma che è intitolato l’archeologia dell’amore dove un archeologo ha raccolto tutte le prove, secondo lui archeologiche, di gente che si amava e viveva una relazione. Trovo affascinante il fatto che uno vuole testimoniare dall’archeologia questo tipo di cose perché l’archeologia è una scienza storica che si basa sul resto materiale e che quindi prova a dare la parola a chi è passato. Infine, io credo che qualsiasi disciplina scientifica porta alla realizzazione delle persone se questi ci si abbandonano e cioè lo fanno con passione e per questo l’università è il posto ideale dove lavorare. Quindi per concludere io a un giovane suggerirei di studiare e di fare dello studio la sua vita perché sarà ricompensato. 

Lorenzo Nigro, archeologo e Professore ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte del Vicino Oriente Antico e di Archeologia Fenicio-Punica presso il Dipartimento di Studi Orientali della Sapienza Università di Roma