la giudice
Paola Di Nicola Travaglini, giudice della corte di cassazione e consulente giuridica della “commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere” del Senato, ci racconta del suo libro La giudice. Una donna in magistratura, attraverso il quale intende dare voce a tutte le donne contrastando stereotipi e violenza di genere.
quando non si è a proprio agio, vuol dire che c’è qualcosa che sta mettendo in discussione la nostra intelligenza, la nostra competenza e la nostra personalità. La nostra identità di donne
Ci può raccontare il momento esatto in cui ha preso coscienza di non essere più il giudice, ma “la giudice”, come recita il titolo del suo libro? Che percorso ha dovuto affrontare per arrivare alla consapevolezza che ha di sé oggi?
Il percorso di consapevolezza delle donne, in qualsiasi contesto avvenga (familiare, professionale, sociale o culturale), è un percorso molto difficile. È un percorso che l›intero contesto ti scoraggia a compiere, affinché ti senta in soggezione, affinché ti senta sempre “ospite”. Mi piace utilizzare questa parola, perché è quella nella quale mi sento più a mio agio.
dobbiamo essere libere di essere quello che desideriamo
Quando si percepisce di essere “ospiti”?
Quando non si è a proprio agio, cioè durante gran parte della giornata, in un ambito che non sia quello tra amiche, tra sorelle o tra persone che ci amano, vuol dire che c’è qualcosa che sta mettendo in discussione la nostra intelligenza, la nostra competenza, la nostra personalità, la nostra identità di donne. All’inizio pensavo fosse un problema di timidezza, di disagio istituzionale, di limite individuale, di preoccupazione. Pensavo fossero tutti miei limiti. Non è affatto così. E l’ho scoperto durante l’interrogatorio raccontato all’inizio del libro. Nonostante io fossi in una condizione di potere, in quanto giudice che attraverso la sua competenza, professione e istituzione aveva portato quell’uomo in carcere, nel luogo massimamente limitativo della propria personalità e identità, mi sentivo, comunque, in una condizione di subordinazione. Lui non mi riconosceva. Lui non mi riconosceva come istituzione. Io ero una femmina, con tutto il mio corpo.
Ogni giudice indossa la toga, emblema di imparzialità e non di neutralità. “La toga traveste, nasconde e non riconosce differenza tra uomo e donna”. Può spiegarci questo concetto?
L’imparzialità costituisce il DNA del giudice, mentre nessuno di noi è neutrale. Nessuno di noi può dirsi neutrale. Io, giudice, devo essere in grado di valutare i fatti nella loro oggettività: portando nei fatti la mia esperienza, ma stando attenta a non modificare, tramite la mia esperienza, i fatti.
Antonio Romano nel 1947 scriveva: “La donna deve rimanere la regina della casa”. Dunque, l’uomo sarebbe capace di giudicare, la donna no. Prendendo spunto dalla citazione del libro “lo stereotipo millenario della calza e non della toga, della domus e non della polis è duro a morire, prima di tutto dentro le donne”, ritiene si riuscirà mai a eliminare questo modo di pensare delle donne e nei confronti delle donne?
È complesso da spiegare. Noi donne trascorriamo molto tempo a preoccuparci di non essere all’altezza, a sminuirci per i risultati, anche quando sono straordinari, che otteniamo e a ridimensionarci. Siamo molto critiche, prima di tutto nei confronti di noi stesse e poi nei confronti delle altre donne; non altrettanto facciamo verso gli uomini. Tutto e tutti fanno in modo che le donne siano ridimensionate. Ogni obiettivo ottenuto dalle donne è interpretabile sotto la luce del do ut des: non piaci per la tua intelligenza, ma perché “piaci al maschio di turno che ha il potere di darti potere”. Siamo state, per millenni, delegate a una relazione di chiusura, in un contesto esclusivamente familiare, in cui c’è stato riconosciuto potere solo in quanto madri e mogli. Quindi, al di fuori di questo ruolo di madri e mogli, piacenti e ornamentali, noi non esistevamo. Tutt’oggi una madre che lavora, una madre che guadagna, una madre che si impegna e ha delle ambizioni non è mai una buona madre, perché non antepone i figli e la famiglia a qualsiasi altra cosa. Ecco, questo è un orizzonte dal quale dobbiamo smarcarci. Dobbiamo essere libere di essere quello che desideriamo.
dobbiamo solidarizzare il contesto femminile attorno a noi, senza mai svalutarlo, attraverso un’operazione quotidiana che ci ha insegnato il femminismo
A proposito di donne, secondo lei, come si può abbattere il “tetto di cristallo”?
Nel contesto lavorativo dobbiamo riuscire a solidarizzare e a valorizzare tutto il contesto femminile attorno a noi, senza mai svalutarlo, attraverso un’operazione quotidiana che ci ha insegnato il femminismo. Un consiglio, un monito, un’indicazione: valorizziamo le donne con cui quotidianamente abbiamo a che fare e dismettiamo i panni delle giudicanti a tutti i costi. Sono molto felice che ci sia una presidente della Corte di Cassazione, ne sono onorata e per me è una grande emozione. È come se fossi diventata io presidente, ma non basta un esempio isolato. Quando molte più donne rivestiranno ruoli così importanti e ciò non creerà più stupore, allora si avrà la rottura del “tetto di cristallo”. Inoltre, il “tetto di cristallo” deve essere rotto da donne che abbraccino il percorso di consapevolezza della straordinarietà del loro genere, per non dimenticare, una volta arrivate alla meta, tutte le altre donne che non ce l’hanno fatta.
valorizziamo le donne con cui quotidianamente abbiamo a che fare e dismettiamo i panni delle giudicanti a tutti i costi
Com’è nata l’idea di abbinare ogni capitolo del libro a un senso? È stata una scelta stilistica o un viaggio verso la conquista della sua identità?
È stato un viaggio. Non me ne sono accorta mentre scrivevo. Poi quando ho finito, in realtà, mi sono resa conto che questa separazione tra il corpo e l’intelligenza femminile è una separazione fittizia. Noi non possiamo mai dissociarci dal nostro corpo. Mi sono resa conto che la mia esperienza culturale e di consapevolezza di genere, questa scoperta meravigliosa di essere una donna, andava di pari passo con la scoperta del mio corpo. Sono state entrambe le cose, probabilmente: un circuito virtuoso del ritrovare e del ritrovarsi, attraverso il mio corpo e attraverso tutti i nostri sensi, che ci consentono di vivere appieno ogni esperienza. Sì, mi sono ricomposta, ma non penso che questo percorso sarà mai compiuto. Penso che la consapevolezza di genere, proprio perché abbiamo millenni da attraversare, non si compirà mai, come l’esperienza della vita. Non so se si può dire che avverrà mai in modo definitivo. Ogni giorno, di fatto, trovi e scopri altri pezzetti di te e il bello è proprio questo.
Paola Di Nicola Travaglini, giudice della corte di cassazione e consulente giuridica della commissione sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere del Senato
Alice Luceri, studentessa del master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma https://web.uniroma1.it/mastersgp/
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