Adenovirus

Adenovirus

Antonella Folgori, Presidente e Direttrice del Dipartimento di Immunologia della biotech ReiThera, precedentemente Okairos, ci racconta la storia di un’azienda cambiata molto velocemente nel tempo. Ma anche di cosa sono i vaccini, come si producono e delle piattaforme tecnologiche contro Ebola, Marburg e HIV

Qual è stato il percorso che l’ha portata a ReiThera? 

Il mio è stato un percorso lungo ma entusiasmante e spero che possa stimolare altre donne. Dopo la laurea in Biologia alla Sapienza, ho avuto l’opportunità di fare il tirocinio post-laurea all’Istituto di Ricerche di Biologia molecolare (IRBM) Piero Angeletti, una joint venture tra due industrie, l’italiana Sigma tau e l’americana MSD. Qui ho lavorato con moltissimi scienziati che erano tornati dall’estero in Italia, tra cui una persona fondamentale: il Professor Riccardo Cortese, grande scienziato ma anche grande imprenditore. Lui mi offrì la possibilità di fare un dottorato di ricerca che prevedeva la collaborazione tra l’istituzione privata e l’università. Concluso il dottorato il Professor Cortese mi ha spinto a fare un’esperienza di post-dottorato all’estero e grazie a una borsa di studio sono andata in Francia, a Strasburgo, dove ho approfondito la risposta immunitaria mediata dai linfociti T contro i virus, in particolare con l’obiettivo di creare vaccini che stimolassero queste cellule (i linfociti T). Tornata a Roma ho continuato a lavorare all’IRBM, polo di ricerca dove effettivamente si potevano mettere a punto nuovi farmaci e anche vaccini contro i virus. Poi, grazie al Professor Cortese, ho avuto l’opportunità di uscire dalla grossa industria farmaceutica e di lanciare una startup con lui e altri scienziati. L’idea era quella di creare vaccini di nuova generazione basati sull’utilizzo di adenovirus: così nasce Okairos. Ho deciso di abbandonare un percorso più certo ma anche più standard perché credevo nel progetto di Cortese e insieme a lui, al Prof. Alfredo Nicosia, braccio destro del professore e a Stefano Colloca – esperto della tecnologia dei virus ricombinanti – ci siamo lanciati in questo progetto. È stata un’avventura con grandi sacrifici e tante soddisfazioni. L’azienda aveva due sedi. A Napoli c’erano i laboratori, che avevamo aperto grazie a una serie di connessioni con l’Università Federico II di Napoli e un polo tecnologico chiamato CEINGE, a un costo ragionevole e con un gruppo di giovani ricercatori. A Roma c’era invece la parte manageriale e di supervisione. In pochi anni siamo riusciti a sviluppare dei potenziali vaccini, in particolare contro il virus dell’epatite C e contro il virus respiratorio sinciziale – RSV – candidato, quest’ultimo, che ha attratto l’interesse farmaceutico. Quindi, nel giro di alcuni anni, siamo riusciti a dimostrare che questi vaccini erano efficaci in laboratorio su modelli animali aprendo la strada alla sperimentazione nell’uomo. I vaccini effettivamente erano sicuri e inducevano il tipo di risposta immunitaria che ci aspettavamo. La nostra piattaforma tecnologica – utilizzabile ad ampio spettro e producibile a livello industriale – era basata sull’utilizzo di adenovirus. Abbiamo usato il lato buono dei virus rendendoli deficienti per la replicazione e quindi completamente sicuri e li abbiamo utilizzati come navicelle per trasportare degli antigeni negli animali, in fase di sperimentazione in laboratorio, e nell’uomo nella fase di validazione clinica. Il pezzettino del patogeno trasportato all’interno del corpo umano con il vettore era in grado di far sviluppare la risposta immunitaria cruciale per la protezione. Siamo riusciti a vendere i nostri progetti e i nostri brevetti a una grossa industria farmaceutica, la GlaxoSmithKline mantenendo però la società e i suoi dipendenti. La società è sempre rimasta in Italia ma abbiamo dovuto cambiarne il nome a seguito della vendita all’azienda.

Da dove viene il nome ReiThera? 

Dalla fusione di due parole. “Rei”, che rappresentava la nostra volontà di ripetere l’esperienza di Okairos e “Thera”, nel senso di provare a fare qualcosa nel campo delle terapie, come quello della terapia genica, e non solo in quello dei vaccini. 

Come è cambiato il suo percorso?

Mi sono sempre occupata della risposta immunitaria a questi candidati vaccini. Quindi all’inizio sono stata il direttore del team di Immunologia sia in Okairos sia in ReiThera. Nel tempo ho assunto ruoli manageriali e dal 2018 sono il CEO della company e il presidente del consiglio di amministrazione. Questo dimostra che si può cambiare e trasformare il proprio percorso ricoprendo ruoli anche diversi e più importanti ovviamente con il supporto di una squadra di alto livello.

Ci può condividere un ricordo di Riccardo Cortese? 

Lui aveva la capacità di mettere insieme un’ottima squadra, anche con persone molto diverse tra loro. Ovviamente era un grandissimo capo, con un grande carisma, a volte molto duro. Ci stimolava ad andare avanti e a vedere oltre, e aveva una curiosità incredibile. 

E di Antonella Folgori come capo cosa direbbe?

Sono consapevole di alcune mancanze dovute alla mia formazione scientifica, per cui credo moltissimo nel lavoro di squadra per poter svolgere il ruolo di CEO, nella condivisione e nell’ascoltare gli altri. Sono pronta a cambiare idea dopo il confronto. Sono fortemente convinta che tutti debbano essere coinvolti e partecipi di un progetto comune.  

Il bancone – laboratorio – le manca?

Sì, anche se devo dire che sono stata poco al bancone perché ho avuto presto la possibilità di avere un piccolo team da coordinare. Ho imparato che delegare e formare persone che diventano anche più brave di te è una ricchezza: il manager può solo che guadagnarne. Spesso invece alcuni capi temono che fare qualcosa insieme a qualcuno possa comportare una perdita. E invece credo che sia importante che i giovani manager crescano con questa consapevolezza. 

Qual è la più grande differenza in termini di progetti che percepisce oggi rispetto al passato? 

Con Okairos, la nostra missione era quella di creare potenziali vaccini o farmaci che potessero trasformarsi in prodotti. E quindi avevamo dei programmi di ricerca e di sviluppo clinico che erano nostri. Ovviamente, tutto questo richiedeva fondi e investimenti per poter andare avanti, quindi abbiamo iniziato a vendere le nostre idee, i nostri brevetti e i nostri programmi alla grossa industria farmaceutica. C’è stata una fase intermedia in cui abbiamo lavorato quasi in esclusiva con questa grossa industria farmaceutica che ha voluto che insegnassimo ai loro ricercatori la nostra piattaforma tecnologica. Finita la collaborazione, abbiamo dovuto aprirci a nuove possibilità per sostenerci. Dall’esperienza con l’azienda farmaceutica abbiamo capito che non bastava avere laboratori e bravi scienziati, ma era fondamentale avere un’officina farmaceutica, ossia una piccola fabbrica dove preparare i lotti clinici per la sperimentazione clinica. E così abbiamo fatto. La capacità di produrre in house i lotti per la sperimentazione è stata cruciale per accelerare i nostri progetti e poi per il cambiamento. Poi, abbiamo pensato che la cosa migliore da fare per sostenerci fosse quella di mettere a frutto il nostro know how, i nostri laboratori e l’officina farmaceutica per conto terzi. Oggi, da noi vengono startup, istituzioni e industrie private con idee embrionali che devono passare dal laboratorio alla sperimentazione clinica. Noi li aiutiamo in questo percorso: trasformare l’idea in un prodotto industriale. A partire dal process development, ossia la valutazione del processo di produzione industriale di un nuovo farmaco per finire al controllo di qualità in cui si vede se il prodotto ha tutte le caratteristiche che ci si aspettava. Quindi ora facciamo per gli altri quello che prima facevamo per noi. Ovviamente è un cambiamento importante, ma credo che siamo sulla buona strada. 

Ci può parlare dell’impegno in Africa di ReiThera, in particolare con il vaccino contro l’Ebola e l’HIV?

Abbiamo una collaborazione con il Sabin Vaccine Institute che ci commissiona la produzione di lotti clinici di candidati vaccini contro Ebola. In particolare, contro Sudan Ebolavirus e Marburg, due filovirus su cui c’è grande attenzione perché non ci sono ancora vaccini e causano una malattia gravissima – febbre emorragica – con tassi di mortalità di oltre il 50% degli infettati. Sabin Vaccine Institute è un’istituzione no-profit responsabile dello sviluppo di questi vaccini e ci commissiona la loro produzione. Per altro, i vaccini contro Ebola sono basati sulla tecnologia a adenovirus che avevamo sviluppato con Okairos e venduto alla GlaxoSmithKline, la quale l’ha ceduto a sua volta al Sabin Vaccine Institute. E oggi, noi li produciamo. Questo progetto è importante e ci dà tante soddisfazioni perché siamo parte di un’iniziativa sponsorizzata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), per la messa a disposizione di candidati vaccini nel caso di focolai virali.  

Questo vaccino è in approvazione clinica ma comunque a disposizione per trattare i focolai? 

Sì. Bisogna considerare che ovviamente il ruolo principale lo svolge il Sabin Vaccine Institute, perché questo vaccino non è più di nostra proprietà. Noi collaboriamo per la produzione. Ad esempio, dei lotti sono stati mandati in Uganda per trattare un focolaio e per fare in modo di avere una sorta di condizione sperimentale che potesse dimostrare l’efficacia e la sicurezza dei vaccini. 

E quindi come sta andando? 

Sta per iniziare una fase 2: è uscito anche un comunicato stampa del Sabin Vaccine Insitute. Sono previsti trials in Uganda e in Kenya per il vaccino contro il filovirus Marburg. 

E l’HIV? 

L’HIV ha una storia di collaborazione con l’importantissima Fondazione Bill e Melinda Gates che si preoccupa dei Paesi sottosviluppati, in particolare ha molto a cuore l’Africa, ed è anche un grande sponsor della vaccinazione: un’arma fondamentale a livello globale nella lotta alle infezioni. L’HIV oggi si può trattare con farmaci straordinari ma costosi. Infatti, si considera quasi risolto il problema nei Paesi ricchi ma non nei paesi più poveri dove un vaccino, a costi più contenuti, risolverebbe la questione. L’HIV è un virus estremamente furbo, cerca di evadere il sistema immunitario in tutti i modi e nonostante tantissimi anni di ricerca e grandi finanziamenti, ancora non si è arrivati alla messa a punto di un vaccino contro questo virus. Si è capito che bisogna indurre un certo tipo di risposta immunitaria completa che possa produrre sia anticorpi che linfociti T e cercare anche di fare in modo che poi il virus non evada questa risposta immunitaria. La Fondazione Bill e Melinda Gates si è interessata alla nostra piattaforma tecnologica, quella basata sugli adenovirus, e a una serie di risultati scientifici e clinici che noi abbiamo pubblicato con il nostro candidato vaccino per il Covid. La Fondazione ha capito che questa tecnologia può essere particolarmente adatta a indurre una forte risposta mediata dai linfociti T. Quindi abbiamo iniziato questa collaborazione con l’intento di provare a mettere a punto una componente di un potenziale vaccino contro l’HIV che permetta di sviluppare la risposta mediata da linfociti T. La Fondazione ha messo in campo noi e un altro istituto statunitense, che ha sviluppato un sistema per identificare le regioni di particolari proteine del virus HIV che, inserite nel nostro adenovirus, possano essere in grado di stimolare una risposta T in grado di colpire anche diverse varianti del virus. Quindi, con questa collaborazione tra diversi partner a livello internazionale, stiamo lavorando per sviluppare un vaccino efficace contro l’HIV. Ora stiamo curando la manifattura di un primo lotto clinico e speriamo poi di iniziare la sperimentazione clinica presto. 

Il vaccino HIV è previsto per chi è stato già contagiato o a scopo preventivo? 

L’obiettivo primario è quello di mettere a punto un vaccino preventivo, ossia un vaccino che possa essere dato a persone sane per consentire loro di montare una risposta immunitaria contro l’HIV e quindi di non esserne infettate. Però c’è anche il progetto di valutare questo stesso tipo di approccio come una terapia per persone che sono state già infettate. 

Lei è immunologa. Abbiamo parlato di ebola, HIV e Covid. Secondo lei, perché in Africa il Covid non ha causato gravi conseguenze?  

Innanzitutto, la popolazione in Africa è molto più giovane e si è visto come il Covid abbia causato grosse complicazioni in persone anziane e anche con comorbidità. Quindi il fattore età ha avuto un ruolo importante. Poi ci possono essere delle caratteristiche di tipo genetico, che possono influenzare la gravità della malattia.  

Qual è il suo vettore virale preferito dopo l’adenovirus?

Sono due. Il primo è l’AAV, un vettore adenoassociato considerato il migliore nella terapia genica, ossia per la cura di malattie genetiche anche gravissime. L’altro è il lentivirus, che è fondamentale nella cell therapy che ha dato importanti risultati con le CAR-T cells soprattutto nelle terapie dei tumori ematologici, e che ora si sta cercando di applicare anche ai tumori solidi. In questo contesto, i lentivirus sono uno strumento fondamentale per ingegnerizzare i linfociti T dei pazienti rendendoli capaci di riconoscere le cellule tumorali grazie a specifiche proteine presenti sulla loro superficie e a farli diventare macchine straordinarie contro i tumori scatenando verso di essi la risposta immunitaria. 

Sul Nobel per la medicina 2023 assegnato a Katalin Karikó e Drew Weissman per le scoperte che hanno portato ai vaccini a mRNA, cosa ne pensa?  

Credo che sia un riconoscimento dovuto. Ricordo veramente con grandissima emozione quando è uscita la pubblicazione scientifica che riportava l’altissima efficacia del vaccino ad mRNA, sviluppato in tempi record rispetto a quando era stata resa pubblica la sequenza del Covid. Quindi, da scienziata, nonostante abbia sempre lavorato sull’adenovirus e quindi sulla piattaforma tecnologica che poi si è trovata parecchio in antitesi con quella a RNA per la produzione di vaccini anti COVID, mi ha molto emozionata.  Era una tecnologia su cui si lavorava da tempo ma non si sapeva se potesse funzionare realmente. Molto rimane da studiare, perché comunque è relativamente nuova la sua applicazione nell’uomo. Inoltre, credo che il Nobel premi anche la storia di una donna incredibile, Katalin Karikó, che dovrebbe essere presa ad esempio.    

Un consiglio a una giovane scienziata? 

Di essere determinata, di crederci sempre e di non scoraggiarsi mai. Nel mio percorso non ho avuto raccomandazioni e sono stata sempre libera di scegliere; ho trovato persone che hanno creduto in me e ho saputo cogliere le opportunità. Quindi consiglio di stare sempre con le antenne vibranti perché le occasioni capitano a tutti ma bisogna essere attenti a coglierle nel momento giusto.

Antonella Folgori, Presidente e Direttore del Dipartimento di Immunologia della biotech ReiThera

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza Università di Roma