Lasciate in pace gli uccelli

Lasciate in pace gli uccelli

Perchè non va disturbata la fauna selvatica

Un nuovo studio scientifico ci ricorda perché è importante non “disturbare” la fauna selvatica: oltre ai salti di specie dei patogeni, emerge anche il problema dell’antibiotico-resistenza

di Sandro Iannaccone


È la lezione zero che avremmo dovuto imparare dalla pandemia di CoViD-19, ma che evidentemente facciamo ancora fatica a comprendere. Bisogna lasciare in pace la fauna selvatica. D’altronde lo aveva già sottolineato, in tempi non sospetti, il saggista statunitense David Quammen nel suo fortunato Spillover, in cui raccontava, con dovizia di particolari, lo scoppio di diverse epidemie dovute proprio ai salti di specie compiuti dai patogeni ospitati in serbatoi animali cui non ci saremmo dovuti avvicinare. A rendere ancora più cogente questo imperativo, allungando la lista dei rischi, arriva un nuovo studio recentemente pubblicato sulla rivista Current Biology da Emma Derrick e B. Jesse Shapiro, due ricercatori del dipartimento di microbiologia e immunologia alla McGill University e del Quebec Centre for Biodiversity Science di Montreal, in Canada. Il lavoro mette infatti in luce che alcune specie di uccelli che vivono in aree altamente urbanizzate ospitano una maggiore diversità di batteri potenzialmente resistenti agli antibiotici, e suggerisce, testuali parole, che «l’urbanizzazione potrebbe promuovere la trasmissione dei patogeni tra gli animali selvatici e, potenzialmente, agli esseri umani». 

“Il lavoro mette infatti in luce che alcune specie di uccelli che vivono in aree altamente urbanizzate ospitano una maggiore diversità di batteri potenzialmente resistenti agli antibiotici, e suggerisce, testuali parole, che «l’urbanizzazione potrebbe promuovere la trasmissione dei patogeni tra gli animali selvatici e, potenzialmente, agli esseri umani”

La notizia non è certamente positiva: non solo virus e batteri sono in grado di compiere pericolosi salti di specie, arrivando fino alla nostra, ma sono anche più aggressivi e resistenti ai trattamenti. L’antibiotico-resistenza si verifica quando i batteri sviluppano la capacità di resistere all’azione degli antibiotici, rendendo questi farmaci inefficaci, ed è dovuto spesso a causa dell’uso eccessivo o improprio degli antibiotici, sia negli esseri umani che negli animali. Quando i batteri diventano resistenti, le infezioni che una volta erano facilmente curabili diventano più difficili da trattare, portando a malattie più gravi, degenze ospedaliere prolungate e, in alcuni casi, a un aumento del rischio di mortalità. Da tempo, l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito l’antibiotico-resistenza tra le «top global public health and development threats», le minacce per la salute pubblica a livello globale, stimando che il fenomeno è responsabile di oltre 1,3 milioni di morti l’anno e corresponsabile di circa 5 milioni di morti l’anno in tutto il mondo. Un motivo in più per prendere molto sul serio lo studio appena pubblicato e per corroborare il concetto di One Health, quello che sottolinea come la salute umana, quella animale e quella degli ecosistemi siano strettamente interconnessi: la progressiva espansione delle città e delle attività agricole ha avvicinato esseri umani e animali selvatici, e una gestione sostenibile degli ecosistemi, dunque, non è solo una questione di tutela ambientale, ma anche un modo per prevenire crisi sanitarie globali. Con questo in mente, vediamo cosa hanno scoperto Derrick e Shapiro nello studio appena pubblicato. Gli scienziati si sono concentrati sull’interazione tra gli uccelli selvatici che vivono nelle aree urbane e la diffusione di patogeni resistenti agli antibiotici, in particolare il batterio Campylobacter jejuni, un patogeno noto per essere una delle cause più comuni di intossicazione alimentare negli esseri umani, generalmente attraverso carne di pollame contaminata, ma è anche una componente naturale del microbiota di diversi uccelli selvatici. Lo studio ha analizzato i genomi di oltre 700 ceppi di Campylobacter jejuni provenienti da 30 specie di uccelli selvatici in varie nazioni, per esplorare la relazione tra la vicinanza degli uccelli agli ambienti urbani e la diversità di linee genetiche del patogeno, nonché la presenza di geni di resistenza agli antibiotici. I risultati hanno mostrato che gli uccelli che vivono più vicini agli insediamenti umani tendono a ospitare una maggiore diversità genetica del batterio e un numero più alto di geni di resistenza, evidenziando quindi una preoccupante correlazione: la vicinanza tra uccelli ed esseri umani è associata a un aumento della diversità di Campylobacter jejuni con resistenza agli antibiotici. Questo potrebbe dipendere da diversi fattori: da un lato, l’urbanizzazione porta a un aumento della densità di popolazioni di uccelli come corvi e storni, che tendono a vivere a stretto contatto con gli esseri umani. Dall’altro, l’esposizione degli uccelli ad ambienti contaminati da antibiotici, per esempio attraverso acqua inquinata o rifiuti di origine umana, potrebbe selezionare ceppi più resistenti. Un altro aspetto interessante dello studio è il legame osservato tra la dimensione delle covate e la migrazione degli uccelli, due fattori che sembrano influenzare la diversità di Campylobacter jejuni

“I risultati hanno mostrato che gli uccelli che vivono più vicini agli insediamenti umani tendono a ospitare una maggiore diversità genetica del batterio e un numero più alto di geni di resistenza, evidenziando quindi una preoccupante correlazione: la vicinanza tra uccelli ed esseri umani è associata a un aumento della diversità di Campylobacter jejuni con resistenza agli antibiotici”

Gli uccelli migratori, ad esempio, attraversando diversi habitat, possono essere esposti a una più ampia gamma di ceppi batterici, contribuendo alla loro diffusione su vasta scala. Allo stesso modo, una covata più grande può facilitare la trasmissione dei patogeni tra i piccoli. L’uso del database eBird, una piattaforma di citizen science per il monitoraggio delle specie aviarie, ha permesso di mappare la distribuzione geografica delle specie di uccelli studiate e sovrapporla con i dati sulla densità di popolazione umana. È stato proprio questo a rivelare la forte correlazione tra l’aumento della vicinanza agli insediamenti umani e la presenza di geni di resistenza agli antibiotici nei batteri presenti negli uccelli. Lo studio di Derrick e Shapiro, in sostanza, solleva questioni fondamentali riguardo al rischio che l’urbanizzazione possa facilitare la trasmissione di patogeni resistenti dagli animali selvatici agli esseri umani. Sebbene non sia ancora chiaro se e quanto frequentemente si verifichino eventi di trasmissione diretta tra uccelli e persone, i dati suggeriscono che le città e gli ambienti umani possano diventare focolai di diffusione di batteri resistenti. Un ulteriore passo nello studio del legame tra uccelli e patogeni potrebbe consistere in un campionamento più approfondito di specie particolarmente abbondanti, come i corvi, che hanno mostrato la più alta diversità di ceppi resistenti. Questo permetterebbe di tracciare meglio i possibili eventi di trasmissione e comprendere quanto spesso i patogeni si spostano tra uccelli selvatici e ospiti umani. La diversità di geni resistenti riscontrata nei patogeni degli uccelli è un segnale d’allarme anche per quanto riguarda l’inquinamento ambientale. Le aree urbane, con acque e suoli contaminati da antibiotici e altre sostanze chimiche, potrebbero fungere da serbatoio per l’evoluzione di ceppi resistenti, che poi si diffondono attraverso la fauna selvatica. Questo fenomeno richiede una gestione più rigorosa delle risorse idriche e dei rifiuti urbani per prevenire la selezione di ceppi resistenti negli ecosistemi naturali. Proteggere la biodiversità urbana, insomma, non è solo una questione di tutela ambientale, ma è essenziale per la prevenzione sanitaria: il concetto di One Health ci insegna, ancora una volta, che non possiamo separare la nostra salute da quella dell’ambiente e degli animali che ci circondano. L’urbanizzazione incontrollata e la cattiva gestione degli antibiotici rischiano di accelerare la diffusione di patogeni resistenti, minando le nostre capacità di cura e prevenzione delle malattie. In Italia, le iniziative per proteggere la biodiversità e gestire in modo sostenibile le risorse naturali possono contribuire a mitigare questi rischi. Tuttavia, serve ancora una maggiore consapevolezza del fatto che tutelare l’ambiente significa anche proteggere la salute pubblica. Il monitoraggio continuo dei patogeni nelle specie selvatiche e una politica ambientale orientata alla sostenibilità sono passi necessari per mantenere il delicato equilibrio tra essere umano e natura.

“Proteggere la biodiversità urbana, insomma, non è solo una questione di tutela ambientale, ma è essenziale per la prevenzione sanitaria: il concetto di One Health ci insegna, ancora una volta, che non possiamo separare la nostra salute da quella dell’ambiente e degli animali che ci circondano”

Sandro Iannaccone, fisico e giornalista