Africa microscopy initiative
Non solo terra di guerra, fame, migrazioni, emergenza climatica. L’Africa è anche terra di ricerca, che molto può fare per risolvere, per l’appunto, i tanti problemi legati alle malattie infettive, alla sicurezza alimentare, alle crisi umanitarie e al cambiamento del clima che purtroppo affliggono il continente, trasformando spesso un problema tecnico-scientifico in un problema sociale di portata internazionale
Il paradosso è che nell’epicentro delle attuali e future crisi, gli africani si trovino “disarmati” per affrontarle, a causa di carenza di fondi, tecnologie, infrastrutture e competenze tecniche. Gli scienziati africani sono spesso trattati come scienziati di serie B, relegati a raccogliere dati e campioni, il cui studio e la cui elaborazione avverranno poi nei laboratori occidentali. Questa sorta di “colonialismo scientifico” causa danni non meno gravi di quello condotto con gli eserciti o con l’economia, perché condanna la popolazione africana a un ruolo subalterno, in una società basata sulla tecnologia, impedendole di sviluppare in maniera autonoma competenze e capacità produttive. Causa inoltre un depauperamento del già traballante sistema scientifico, a causa dell’emigrazione in occidente dei giovani scienziati più promettenti e dotati. In questo contesto si inserisce la cosiddetta AMI, acronimo di Africa Microscopy Initiative, focalizzata, come suggerisce il nome, sul campo della microscopia. Una serie di esperimenti e ricerche per condurre i quali, purtroppo, mancano ancora troppo spesso strumenti e formazione; e anche nelle situazioni di eccellenza, quando agli scienziati è garantito l’accesso a risorse nazionali e internazionali nel campo della microscopia, il limite emerge relativamente al resto del sistema ricerca: è necessario infatti trovare dei progetti di ricerca sufficientemente avanzati affinché possano usufruire appieno dei benefici di queste tecnologie avanzate.
Al momento queste sono le iniziative legate ad AMI: un centro di imaging, fornito di strumenti avanzati, totalmente finanziato e messo a disposizione degli scienziati; un programma per lo scambio e la riutilizzazione degli strumenti (PEER), che fa uso degli strumenti dismessi dai laboratori di tutto il mondo, ancora perfettamente funzionanti, ma sostituiti da nuovi modelli, con il prezioso supporto di diverse case produttrici; un programma di workshop, “Imaging Africa”, che finanzia le spese per workshop tematici agli scienziati africani; un progetto didattico, “Partners in Teaching” (PiTCH), per la formazione di specialisti di microscopia in percorsi misti con ricercatori occidentali; una serie di webinar di costo contenuto, i “Microscopy Matters webinars”; un incubatore di progetti che permette di mettere a frutto le competenze acquisite e gli strumenti a disposizione, aprendo la strada a futuri sviluppi. In Africa si sta insomma tentando un approccio integrato, in cui convergano formazione, didattica, strumentazione, pianificazione, progettazione, analisi e condivisione. Il successo di AMI verrà certificato se sarà in grado di rompere il circolo vizioso che ha tenuto in secondo piano la comunità scientifica africana, e se questo accadrà, sarà il primo passo verso un sistema che permetta il pieno riconoscimento delle potenzialità di questa comunità scientifica, alla pari con i colleghi occidentali.
Emilio Giovenale, studente del master “la scienza nella pratica giornalistica” presso il dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma
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