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Neanderthal di Altamura: uno scheletro che dal 1993 aspetta di poter essere estratto dalla sua prigione carsica. Giorgio Manzi ci racconta dello scheletro e del contributo scientifico del gruppo di paleoantropologi della Sapienza Università di Roma
Dopo trent’anni dalla scoperta, lo scheletro noto come “uomo di Altamura” si trova ancora lì: ad alcuni metri di profondità sotto la crosta dell’Alta Murgia barese, nel fondo di una grotta a un paio di chilometri dal centro storico di Altamura, accessibile solo a pochi ed esposto a tutti i pericoli di un sistema carsico.
Dopo un percorso speleologico che presenta almeno un paio di passaggi non facili da attraversare, ci si affaccia nella cosiddetta “abside dell’uomo” e si rimane colpiti dalle ossa dello scheletro, che emergono come da una culla carsica con una tridimensionalità quasi surreale. Fra le altre ossa, salta subito agli occhi il cranio: è rovesciato, con le possenti arcate sopraorbitarie messe ancor più in evidenza dalle formazioni coralloidi che lo avvolgono. Si tratta dello scheletro più completo della specie Homo neanderthalensis che sia mai stato rinvenuto.
I primi di ottobre del 1993, venne individuato da due speleologi baresi e da quelli del gruppo di Altamura, il C.A.R.S. (Centro Altamurano Ricerche Speleologiche), che avevano intercettato il sistema sotterraneo almeno un anno prima, scavato un pozzo artificiale per raggiungerlo e iniziato a esploralo e a documentarlo. Nei trent’anni che sono trascorsi da allora, lo straordinario reperto ha rappresentato un vero e proprio “totem”, quasi un vanto per la gente di Altamura, ed è diventato al tempo stesso – come scriveva il compianto Marcello Piperno, l’archeologo preistorico di Sapienza che più a lungo di tutte e tutti si è occupato del caso-studio di Altamura – anche un “tabù”, una sorta di monumento intoccabile.
Con il Neanderthal di Altamura siamo in un’epoca in cui esseri umani simili a noi e, al tempo stesso, diversi da noi – cioè i Neanderthal – vivevano in Europa e in lembi dell’Asia occidentale, ben prima che dall’Africa e dal Vicino Oriente arrivassero sullo stesso territorio le avanguardie di una nuova specie: la nostra, Homo sapiens. Le potenzialità della ricerca su questo particolare caso-studio vanno inoltre viste nello scenario del territorio italiano, che ha rappresentato una sorta di cul-de-sac geografico ed ecologico per diverse forme umane che nel corso del Pleistocene si sono aggirate per l’Europa. Quella di Altamura è dunque una scoperta paleoantropologica davvero straordinaria, di enorme interesse per le nostre conoscenze sui Neanderthal e su noi stessi; come pure di formidabile impatto emotivo, con tutta la dose di fascino e di mistero che la pervade. Quello scheletro è infatti ancora prigioniero delle concrezioni calcaree che lo avvolgono, da quando quell’uomo – circa 150 mila anni fa – pensiamo che precipitò in un pozzo naturale e venne inghiottito dalla terra, fino a morire di stenti. Poterlo studiare, una volta che sarà finalmente estratto dal calcare – con tutte le accortezze del caso e non allontanandolo, se non per brevi periodi, da Altamura – significa avere la possibilità di chiarire aspetti dell’evoluzione umana che, altrimenti, non sarebbero conoscibili.
Noi paleoantropologi della Sapienza di Roma, con i colleghi di Firenze, Pisa e Perugia, insieme ad altri specialisti di varia provenienza (dall’EURAC di Bolzano, come da Newcastle in Australia) e con diverse competenze specialistiche, ci siamo occupati del Neanderthal di Altamura nell’ultima dozzina di anni, dal 2009 per la precisione. È stato allora, quindici anni dopo la scoperta, che si è potuto registrare una diversa sensibilità da parte delle autorità della Soprintendenza Archeologica, del Comune di Altamura e della Regione Puglia, motivate a coordinarsi fra loro per sostenere nuove fasi di studio, tutela e valorizzazione. Questo clima ha consentito di poter condurre ricerche specialistiche – anche se, per ora, quasi esclusivamente in situ – con attività di documentazione, di analisi e di studio. Le nuove ricerche hanno dato importanti risultati, compresa un’inedita quanto attesa datazione del fossile con il metodo radiometrico Uranio-Torio, dati qualitativi e quantitativi sulla morfologia delle parti visibili dello scheletro (acquisiti con tecniche laser e fotogrammetriche) e, non per ultimi, i risultati preliminari dell’estrazione del DNA.
Uno degli obiettivi della nostra ricerca è stato rilevare in grotta ed esaminare poi in laboratorio la morfologia del distretto scheletrico maggiormente diagnostico in chiave comparativa: il cranio. Ci siamo riusciti combinando le riprese laser e fotogrammetriche realizzate sulla parte anteriore (quelle che si vedono in tutte le foto) con analoghe acquisizioni 3D effettuate attraverso apparecchi montati su bracci telescopici. Facendo penetrare questi fra il colonnato carsico su cui appoggiano il cranio stesso e altre ossa, abbiamo potuto vedere e registrare la parte posteriore e la base del cranio ché sporgono in un vano inaccessibile oltre l’abside. Avevamo poi un altro compito altrettanto difficile: armonizzare e saldare tra loro le due metà del cranio. Lo abbiamo fatto utilizzando una complessa procedura di analisi digitale e di manipolazione virtuale. Alla fine – prima nei nostri computer e poi sotto forma di stampa tridimensionale – avevamo sotto gli occhi e fra le mani il cranio dell’uomo di Altamura. Una vera emozione!
Dallo studio del cranio emerge con chiarezza che l’uomo di Altamura presenta una combinazione assai peculiare di tratti morfologici, unica direi: alcuni appaiono chiaramente quelli di un Neanderthal mentre altri sono decisamente più arcaici. Un simile mosaico di caratteri è tipicamente riconducibile alla variabilità dei resti umani che si rinvengono in Europa a cavallo fra il Pleistocene Medio e il Superiore. Tuttavia, nel caso di Altamura, si osservano aspetti più arcaici del previsto. Cosa che ci ha fatto ipotizzare un prolungato attardamento di popolazioni umane nel sud della penisola italiana.
Abbiamo presentato i risultati delle nostre ricerche in congressi scientifici e su riviste internazionali a elevato impatto bibliometrico; altre sono in corso e altre ne seguiranno. Abbiamo anche progettato il protocollo di una possibile estrazione delle ossa, che (ovviamente) vanno trattate con perizia, con la massima delicatezza e con tutta la calma necessaria. Lo scheletro verrebbe così liberato, osso dopo osso, dal calcare, per poter essere sottoposto alle analisi di laboratorio più sofisticate (prima fra tutte quelle che si basano sulla tomografia computerizzata), associate a tecniche di conservazione peculiari. Si potrebbe così preservare al meglio lo scheletro e restituire al Neanderthal di Altamura il significato di bene culturale che gli compete.
Già da qualche tempo, d’altra parte, conoscenza, tutela e valorizzazione sono alla nostra portata. Lo dimostra, solo per fare un esempio, il modello iperrealistico che i paleoartisti olandesi Adrie e Alfons Kennis hanno realizzato nel 2017 sulla base dei dati da noi raccolti. Abbiamo potuto dare così un volto e un corpo allo scheletro che rappresenta la più sensazionale scoperta paleoantropologica mai avvenuta in Italia. Lo si può incontrare, come fosse di persona, in una sala a lui dedicata nel Museo archeologico nazionale di Altamura.
Giorgio Manzi, Paleoantropologo presso il dipartimento di biologia ambientale della Sapienza Università di Roma
Ringraziamenti
Sono grato a tutti coloro che hanno partecipato alla scoperta, allo studio e alla valorizzazione dello scheletro umano della grotta di Lamalunga, presso Altamura (Bari)
Riferimenti bibliografici
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