Antibioticoresistenza: un problema italiano, europeo, mondiale
L’aumento dell’uso degli antibiotici, lo sviluppo dei batteri resistenti, e la loro diffusione, sono fenomeni allarmanti e in continua crescita. Ma per contenere la diffusione del problema ci sono delle strategie
di GIOVANNA BORRELLI, ALICE MATONE e ANDREA MONACO
“CI SARÀ il rischio che uomini ignoranti, assumendo dosi di antibiotico sub letali per i microbi che stanno cercando di debellare, rendano i microbi stessi resistenti alla cura”: a novant’anni dalla scoperta della penicillina, quello che Alexander Fleming aveva previsto nel suo discorso alla cerimonia di assegnazione del Nobel nel 1945 è puntualmente avvenuto. L’antibioticoresistenza, cioè la capacità dei batteri di modificarsi e resistere agli antibiotici, è oggi una delle grandi minacce globali per la salute umana. Le evidenze sperimentali accumulate negli ultimi decenni hanno individuato nell’uso indiscriminato di questi farmaci la causa principale del fenomeno. Nonostante ciò, il consumo di antibiotici su scala globale sembra inarrestabile e sono i paesi a basso e medio reddito a trainare la locomotiva dei consumi. È questo il quadro che emerge dallo studio condotto da un gruppo di ricerca internazionale guidato da Eili Y. Klein del Center for Disease Dynamics, Economics and Policy di Washington, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science, che descrive l’andamento del consumo di antibiotici tra il 2000 e il 2015, analizzando i dati relativi alle vendite in 76 paesi.
Studiando l’incremento annuale, gli autori hanno stimato che i consumi nel 2030 potrebbero arrivare sopra il 200%, un valore allarmante: “È urgente ridurre il consumo di antibiotici nei paesi più ricchi e rallentare la crescita dei tassi di consumo in quelli a basso o medio reddito per provare a contenere il problema della resistenza, soprattutto alla luce dei tempi e delle notevoli risorse necessari per sviluppare nuovi antibiotici”.
Nei quindici anni indagati il consumo pro capite dei farmaci antimicrobici è aumentato del 39% (quello assoluto del 65%). L’aumento è dovuto quasi interamente all’incremento di utilizzo degli antibiotici nei paesi a basso e medio reddito, nei quali i differenti livelli di consumo sono risultati correlati con il prodotto interno lordo pro capite. Nei paesi ad alto reddito, invece, l’aumento dei consumi è più modesto (+ 4% pro capite, + 6% assoluto). I dati relativi al 2015 dimostrano come alcuni paesi a basso e medio reddito abbiano raggiunto livelli del tutto paragonabili a quelli di paesi più ricchi: tra i sei stati con i maggiori consumi pro capite di antibiotici troviamo infatti 4 paesi a basso o medio reddito (Turchia, Tunisia, Algeria e Romania) e 2 ad alto reddito (Spagna e Grecia; l’Italia è al 15° posto). Per quanto riguarda i consumi assoluti di antibiotici, sempre nel 2015, primeggiano tra i paesi ad alto reddito USA, Francia e Italia, e tra quelli a basso o medio reddito, India e Cina, entrambe con consumi decisamente superiori a quelli dei paesi più ricchi.
Notevoli differenze tra paesi sono emerse analizzando i trend dei consumi per le diverse classi di antibiotici. Nei paesi a basso e medio reddito tutte le 4 maggiori classi (penicilline ad ampio spettro, cefalosporine, macrolidi e chinoloni) sono risultate in deciso incremento; nei paesi ad elevato reddito l’unica classe in aumento è quella delle penicilline ad ampio spettro. Diverso è l’esito dell’analisi per i composti di nuova generazione e per i cosiddetti antibiotici “last resort” (sostanze che vengono somministrate quando tutti gli altri antibiotici hanno fallito), che sono in aumento dappertutto. “Le variazioni nel tempo dei consumi delle diverse tipologie di composto possono riflettere alterazioni nell’andamento dell’antibiotico-resistenza”, commentano gli autori.
Tuttavia, a fronte della necessità di una riduzione globale del consumo di antibiotici, è indispensabile delineare strategie di azione calibrate sugli specifici contesti: “È necessario trovare un approccio equilibrato in grado di assecondare la crescente necessità di accesso agli antibiotici, in particolare nei paesi più poveri, dove ancora il peso delle malattie infettive è probabilmente superiore a quello delle infezioni resistenti, e implementare dei programmi di somministrazione mirata in grado di rendere tale accesso il più equo e sostenibile”.
Nei paesi più sviluppati il problema riguarda invece il contrasto alla diffusione dell’antibiotico resistenza. Ma per contenere e prevenire il contagio da batteri resistenti una strategia c’è, si chiama stewardship antimicrobica. Un programma che si affida agli esperti per l’uso appropriato degli antibiotici in ospedale e coinvolge medici, infermieri, farmacisti, ma anche pazienti e cittadini comuni per promuovere una cultura della prevenzione come arma contro l’antibiotico resistenza. Perché, come già detto, le resistenze sono una conseguenza diretta dell’utilizzo dei farmaci e limitare la diffusione degli antibiotici è la via principale per contenerle. Un approccio sottolineato anche durante l’incontro organizzato da Msd Italia a Roma lo scorso 14 giugno “Infezioni batteriche e contrasto all’antibiotico resistenza in Italia. Scenari, priorità e obiettivi secondo un approccio One Health”, ovvero quell’approccio multidisciplinare che coinvolge medicina umana e veterinaria, ricerca, agricoltura, zootecnia e comunicazione. Durante l’evento, insieme a esperti di politica sanitaria, infettivologi, rappresentanti di associazioni per i diritti dei malati e diverse società scientifiche si è discusso in particolare della situazione nel nostro paese. Anche l’Italia ha ormai capito l’importanza di questo approccio. Il Gruppo italiano per la stewardship antimicrobica (Gisa) ha elaborato infatti il “Decalogo per il corretto uso degli antibiotici e per il contenimento delle resistenze”, una guida per tutti gli addetti ai lavori che indica le azioni concrete da intraprendere per prevenire la diffusione di infezioni da germi resistenti. “C’è l’esigenza – ha commentato Francesco Menichetti, presidente Gisa – di avere accesso all’uso di test per le diagnosi di ultima generazione, più veloci, che permettono di identificare il tipo di batterio che provoca l’infezione e scegliere così una terapia mirata, riducendo l’utilizzo di antibiotici ad ampio spettro”. Il decalogo propone poi di avere in tutti gli ospedali professionisti microbiologi e infettivologi in grado di elaborare la giusta terapia e seguire tutto il processo di cura dei pazienti. Anche l’utilizzo di biomarcatori, strumenti che aiutano i medici a monitorare il decorso dell’infezione e la risposta dei pazienti agli antibiotici, potrebbe aiutare, quando possibile, la sospensione anticipata della terapia antibiotica, evitando così un’esposizione inutilmente prolungata.
“Raccomandazioni semplici apparentemente, ma che spesso non vengono rispettate, sia dentro che fuori dall’ospedale”, continua Menichetti. Da non sottovalutare sono anche le strategie di infection control nell’assistenza ospedaliera. Attraverso la promozione di campagne per il lavaggio delle mani, l’utilizzo di guanti puliti e l’isolamento dei pazienti con infezioni da batteri resistenti si può impedire il contagio da germi portatori di malattie e resistenti alle cure. Infine, un’adeguata copertura vaccinale ridurrebbe l’uso degli antimicrobici in generale e avrebbe quindi un impatto anche sulle resistenze.
In Italia ci sono già esperienze positive che dimostrano l’efficacia di queste strategie. L’Emilia Romagna dal 2013 ha stabilito che ogni azienda ospedaliera debba avere un professionista responsabile di stewardship. E il caso recente della Campania, che ha formulato delle raccomandazioni sulla terapia antibiotica e le ha diffuse su tutto il territorio regionale, conferma che la situazione attuale è reversibile: il numero di infezioni, così come la durata media dei ricoveri, è cominciato a diminuire.
Devo interrompere gli antibiotici prima del tempo?
Tutti d’accordo: per contribuire ad arginare la diffusione dell’antibioticoresistenza bisogna utilizzare meno e meglio gli antibiotici. La discordia comincia quando si deve decidere come raggiungere l’obiettivo. Un articolo, pubblicato nel 2017 sul British Medical Journal, ha scatenato un dibattito molto acceso. I ricercatori, guidati da Martin J. Llewelyn, della Brighton and Sussex Medical School, sono andati alla ricerca di prove scientifiche in grado di giustificare il mantra di ogni medico di famiglia: “Gli antibiotici vanno presi fino alla fine del ciclo prescritto, anche se vi sentite meglio”. In altri termini, quello che i ricercatori hanno messo in discussione è l’assunto che interrompere il trattamento provochi una maggiore esposizione al rischio di antibioticoresistenza. Alla fine dell’indagine, le evidenze scientifiche a favore sono risultate molto scarse perché i test per definire le corrette durate dei cicli sono spesso lacunosi o assenti. E non finisce qui: il concetto di ciclo con durata predefinita e simile per ogni paziente ignora del tutto il fatto che ognuno di noi risponde in modo differente al trattamento antibiotico. Gli autori concludono che l’invito a completare sempre il ciclo di cura non solo è un’indicazione priva di solidità scientifica ma rema contro i tentativi di ridurre l’utilizzo superfluo degli antibiotici e lanciano il messaggio: “Fermatevi quando vi sentite meglio”. Le repliche all’articolo sono state immediate e la temperatura della discussione è salita rapidamente. La maggior parte delle decine di ricercatori, esperti di politiche sanitarie e perfino semplici medici di famiglia e farmacisti hanno messo in guardia dai molteplici effetti negativi che la diffusione del messaggio alternativo proposto dai ricercatori inglesi potrebbe avere. Tra gli argomenti ricorrenti ci sono l’impossibilità di stabilire con precisione le dosi di antibiotici da somministrare ai pazienti non ospedalizzati e l’assoluta inopportunità di delegare la lunghezza del trattamento alla discrezione del paziente. L’autoriduzione della durata del ciclo potrebbe portare all’aumento dell’utilizzo di antibiotici senza prescrizione o del riutilizzo di residui utilizzati in precedenti trattamenti non completati: tutte pratiche direttamente correlate con tassi elevati di antibiotico resistenza. Qualcuno ha anche prefigurato l’effetto disastroso che il messaggio alternativo avrebbe sulle politiche di miglioramento della salute pubblica faticosamente portate avanti nei paesi del terzo mondo. “Come medico di base sarei felice di poter prescrive trattamenti più brevi, se ci fossero evidenze scientifiche a supporto. Ma fino a prova contraria, io non cambierò il mio modo di prescrivere e continuerò a consigliare di completare il ciclo per la sicurezza dei miei pazienti e per motivi medico-legali”, così conclude Werner Leber, medico londinese del Centre for Primary Care and Public Health, in uno dei più accorati commenti a questo controverso articolo.
Antibioticoresistenza, quali alternative
Sono necessarie soluzioni per contrastare l’uso eccessivo di antibiotici sia per la cura delle infezioni umane che negli allevamenti. Ci sono diverse alternative in via di sperimentazione, ad esempio la fago terapia: il fago è un virus che infetta il batterio e lo uccide, rompendone la cellula per liberare la progenie. Altra soluzione sono le batteriocine, piccole molecole sintetizzate dai batteri che inibiscono la crescita di specie simili. Ci sono poi i batteri predatori, ovvero batteri che si nutrono di altri batteri. Queste soluzioni hanno il vantaggio di essere specifiche, ovvero prendere di mira solo la specie da combattere e non tutta la popolazione batterica, evitando il rischio di indurre la resistenza negli organismi non responsabili della malattia in questione. Esistono anche dei modi di aumentare l’efficacia degli antibiotici in uso, usandoli in combinazione con altri composti che permetterebbero di usarne in minori quantità, come ad esempio alcuni olii essenziali. Una volta in uso anche questi sistemi andranno usati con cautela, perché i batteri possono adattarsi a resistere a tutti i composti.
Parla l’esperto: “Il problema nasce in ospedale”
Nonostante l’uso indiscriminato di antibiotici, il fai da te, e le prescrizioni facili, siano un fenomeno allarmante, il fulcro del problema dell’antibiotico resistenza in Italia è la diffusione all’interno degli ospedali. Spesso a causa di scarsi controlli e cattiva igiene
In Italia i problemi legati all’utilizzo di antibiotici, risiedono soprattutto nella gestione e nel controllo della diffusione delle resistenze. La maggior parte, infatti, avviene nell’assistenza sanitaria pubblica. Patrizio Pezzotti, direttore del reparto di epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità (Iss), ci racconta la situazione nel nostro paese, quali strategie è necessario adottare e di quanto sia necessaria una buona gestione del monitoraggio
Qual è la situazione italiana attuale per quanto riguarda l’utilizzo degli antibiotici?
Nel primo decennio del 2000 si è verificato un forte aumento nell’uso di questi farmaci, dopodiché si sono sviluppate alcune strategie per un utilizzo più contenuto nella popolazione, e questa diminuzione a oggi è rimasta stabile. Tuttavia l’Italia rimane il paese europeo con il consumo pro capite di antibiotici più elevato.
Quali sono le principali cause della diffusione dell’antibioticoresistenza in Italia?
I principali patogeni di cui si parla in termini di resistenza sono esclusivamente nosocomiali, e il problema italiano sta nel basso controllo della diffusione negli ospedali, dove le infezioni vengono trasmesse perché non viene fatta una prevenzione adeguata. Parliamo di cose semplici, come il lavaggio delle mani: si pensi che l’Italia è il paese dove viene utilizzato meno sapone negli ospedali a livello europeo. Altro punto cruciale è l’isolamento dei pazienti, che non viene attuato adeguatamente. Il 90% della diffusione dell’antibiotico resistenza in Italia è conseguenza della cattiva gestione del controllo negli ospedali.
Come vengono sorvegliati gli ospedali?
In alcuni paesi c’è un sistema estremamente efficace di controllo delle infezioni ospedaliere, tutti gli ospedali forniscono dati con cadenze regolari, in cui viene registrato per ciascun reparto il numero e il tipo di infezioni che insorgono, e le caratteristiche dei pazienti. L’andamento viene confrontato tra ospedali e ciò permette a ciascun reparto di capire se sta lavorando bene e come sta applicando i meccanismi di controllo. Di fatto, in Italia, il controllo delle infezioni nella maggior parte dei casi non è nemmeno sorvegliato. L’unico punto da rispettare, per legge, è la presenza dei CIO, i comitati per il controllo delle infezioni ospedaliere: ogni ospedale è tenuto ed avere questo gruppo esperti (fra cui infettivologi e microbiologi) che si confrontano, ma non esiste un sistema di sorveglianza nazionale che misuri le capacità di controllo. Non si può dire in maniera diretta se ciascun ospedale stia lavorando bene o meno.
Come va riformato il sistema ospedaliero rispetto all’uso degli antibiotici?
Un sistema fondamentale, che è stato in parte già implementato, è quello della stewardship, ovvero l’affiancamento ai medici di persone specializzate in microbiologia e infettivologia per le quali è obbligatorio passare prima di prescrivere un antibiotico al paziente. Nelle regioni del nord Italia, dove il sistema sanitario nazionale ha una maggiore capacità di controllo sul territorio, si vedono già i risultati della stewardship, ovvero una minore diffusione dell’antibiotico resistenza. L’altro punto fondamentale è quello della standardizzazione del monitoraggio, che purtroppo, al momento, in Italia non esiste.
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