Rientrare in Italia
La Giovanni Armenise Harvard Foundation è la fondazione creata nel 1996 dal Conte Armenise Auletta. La sua missione è quella di supportare la ricerca scientifica di base, a beneficio dell’umanità, nei campi della medicina e dell’agricoltura. La fondazione con i suoi programmi finanzia e supporta la ricerca di scienziati di spicco. Elisabetta Vitali, la Direttrice dei programmi Italiani della Armenise Harvard Foundation, ci fa conoscere la storia della fondazione e le attività che svolge in Italia.
Intervista a Elisabetta Vitali
di Mattia La torre e Sofia Gaudioso
Che cosa è la fondazione Giovanni Armenise Harvard foundation?
La fondazione Giovanni Armenise Harvard è stata creata dalla visione generosità di un filantropo italiano il Conte Armenise Auletta che purtroppo è defunto nel 2003 oggi suo figlio è ancora il nostro presidente. Nasce dalla presa di consapevolezza di come ci fosse una totale mancanza nei primi anni 90 non solo di terapie per combattere malattie mortali come il cancro ma anche una totale mancanza o quasi totale dei meccanismi biologici alla base della malattia. La realizzazione venne a seguito della malattia della moglie del nostro fondatore che aveva un glioblastoma e che purtroppo non fu curata. La ricerca di una cura li portò ad Harvard dove sviluppò un’amicizia con l’allora dean (ndr decano). Da questa amicizia venne creata nel 1996 la fondazione con lo scopo di finanziare la ricerca di base in campo biomedico. Da allora abbiamo da sempre cercato di proporre dei programmi sia alla Harvard Medical School sia in Italia. I programmi che abbiamo offerto sono evoluti con il tempo. Da un lato cerchiamo di mantenere una costanza e dall’altro cerchiamo di rispondere ai diversi bisogni che emergono e che i nostri ricercatori portano alla nostra attenzione. Dal 1996 la fondazione ha investito in Italia circa 35 milioni di dollari. Tutti gli anni investiamo circa un milione e mezzo di dollari su programmi italiani. Il programma principale che abbiamo è il career development award che è dedicato a postdoc con un’esperienza da tre a dieci anni. È un grant di un milione di dollari dedicato ai ricercatori che si trovano fuori dall’Italia e di qualsiasi nazionalità e che vogliono venire in Italia ad aprire un laboratorio di ricerche presso un istituto ospite. Ad oggi abbiamo portato in Italia 30 scienziati, 28 di loro sono ancora in Italia. Ogni anno diamo un grant e quando possiamo due.
Che cosa cercate in un in un ricercatore e nelle ricerche che voi finanziate?
Nel career development award diamo molto peso e direi priorità a progetti fattibili ma high risk high reward. Negli ultimi anni riceviamo tante application che mettono in evidenza un angolo traslazionale. Noi non lo cercheremo però non penalizziamo se c’è. Cerchiamo una forte impronta meccanicistica e la domanda biologica deve essere alla base di tutto se poi c’è una parte traslazionale in un certo senso meglio. L’obiettivo di tutti è quello di migliorare la qualità della vita degli esseri umani però diciamo che siamo anche consapevoli che la parte veramente di base è finanziata molto meno della parte traslazionale quindi cerchiamo di rimanere molto vicino alla nostra natura che è quella della ricerca di base. Poi valutiamo anche il curriculum, non è il fattore principale ma sicuramente avere pubblicato un articolo come primo autore devo dire che è abbastanza essenziale. Una cosa che ci distingue dagli altri grant è che cerchiamo un buon fit tra il candidato e l’istituto che lo ospita, noi non interferiamo in questa parte ma uno dei documenti che fa parte dell’application è proprio una lettera di intenti dell’istituto che deve essere controfirmata dal candidato. Il nostro comitato è composto da undici scienziati senior sparsi per il mondo, limitatamente in Italia per evitare eventuali conflitti di interesse, e valuta anche la scelta dell’istituto. Nel caso in cui il candidato fosse estremamente valido e la sua proposta anche ma non vedesse un buon fit con l’istituto magari diamo il grant ma con la proposta di cambiare istituto. Questo perché vogliamo mettere nella condizione di avere le più alte possibilità di farcela.
Se dovesse fare un bilancio le persone che hanno vinto il grant sono rimaste negli istituti scelti o c’è stato anche un cambiamento a valle?
Finora sono tutti sono tutti rimasti nel loro istituto. Più che cambiare istituto quello che vediamo è un ampliamento con delle affiliazioni. Solo una volta è successo che un ricercatore ha chiesto di poter cambiare istituto e con grande dolore la fondazione accolse questa richiesta. Il nostro grant è portabile però non è una cosa che incentiviamo perché non è certo una cosa che favorisce il successo del progetto. Per questo facciamo un grande lavoro e chiediamo un grande lavoro ai candidati e agli istituti anche prima perché non è una scommessa che si può poi rifare tante volte senza avere dei danni significativi. Quello che abbiamo fatto finora sembra funzionare.
Mi può parlare invece del suo percorso? com’è entrata a far parte della Fondazione?
Io vengo dal mondo della finanza quando vivevo in Italia sono stata a lungo in banche d’affari, investment banking e fondi di investimento. Nel 2008 mi sono ammalata e sono stata curata grazie alla scienza, prima grazie agli scienziati che avevano capito la mia malattia e poi grazie ai medici e ai chirurghi che mi hanno operato. Quindi mi era rimasto questo grande senso di gratitudine. In più da quando mi sono trasferita negli Stati Uniti sognavo di poter fare anche qualcosa in Italia. Quindi quando un amico mi parlò di questa fondazione, di cui sinceramente non sapevo niente, mi sono innamorata . Fortunatamente la mia capa, l’Executive Director della fondazione, Lisa Meyer ha visto qualcosa in me e da lì è nata una collaborazione proficua che dura ormai da 10 anni.
Se dovesse descrivere con una parola i ricercatori quale sarebbe?
Una parola non penso che mi basti però li definirei sicuramente degli entusiasti.
Elisabetta Vitali, Direttrice dei programmi Italiani presso la Armenise Harvard Foundation.
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