Cibo sostenibile?
Cosa sappiamo davvero sulla carne sintetica? Molti la salutano come il cibo proteico del futuro: economico, sostenibile e sano. Ma c’è ancora molta strada da percorrere. Ecco cosa dice la scienza.
ll cibo del futuro, per qualcuno. Quello che ci libererà da allevamenti intensivi, consumo di suolo e di acqua, emissioni di metano. Ma anche, per qualcun altro, una terribile minaccia per la salute umana, per la filiera agroalimentare e per le tradizioni culinarie del made in Italy. Il dibattito sulla carne sintetica, o coltivata, o cellulare (la nomenclatura stessa è un problema nel problema, come vedremo tra poco), è accesissimo, e, al solito, altamente polarizzato. A gettare ulteriore benzina sul fuoco è stata l’approvazione da parte del Consiglio dei ministri (su proposta del Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste), il 28 marzo scorso, di un disegno di legge che dispone “il divieto di impiegare, nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, importare, produrre per esportare, somministrare o comunque distribuire per il consumo alimentare, cibi, mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati”. In altre parole, uno stop tout court alla carne sintetica in nome del principio di massima precauzione e – dice il Ministro – deliberato con la finalità di “assicurare il massimo livello di tutela della salute dei cittadini e preservare il patrimonio agroalimentare”. Politichese a parte, quanto c’è di vero? Cosa dice la scienza in merito alla sicurezza della carne coltivata? E cosa in merito alla sua presunta sostenibilità, e alla possibilità che risolva il problema degli allevamenti intensivi? Tutti questi temi, in effetti, sono stati negli ultimi anni oggetto di ricerche estensive da parte della comunità scientifica; ma prima ancora di addentrarci in una disamina dei risultati più significativi è opportuna una premessa su cosa sia, effettivamente, la carne sintetica, nonché, come anticipavamo, su come sia più giusto chiamarla. Ci viene in aiuto un rapporto appena pubblicato dagli esperti della Food and Agricolture Organization (FAO) e della World Health Organization (WHO), gli organi delle Nazioni Unite che si occupano, rispettivamente, di cibo e salute globale. Il documento è il primo del suo genere, e tocca tutti gli aspetti della questione, sottolineando anzitutto l’assoluta necessità di innovare i sistemi di produzione del cibo in risposta alle “tremende sfide alimentari” che dovremo fronteggiare in vista delle previsioni demografiche per il prossimo futuro – si stima che nel 2050 la popolazione mondiale toccherà quota 10 miliardi di persone. Cominciamo dalle definizioni: FAO e WHO sottolineano che non esista alcun termine “scientificamente corretto al 100%” per descrivere la carne sintetica, o coltivata; il più appropriato, secondo gli esperti, è cell-based food, ossia “cibo basato su cellule”, anche se, aggiungono, “a rigore ogni organismo è fatto di cellule”, e quindi anche la carne “tradizionale” lo è. L’aggettivo “coltivata”, d’altro canto, può confondere in quanto “è spesso usato nel gergo agroalimentare per indicare prodotti di allevamento”; l’aggettivo “sintetica” rimanda a prodotti completamente artificiali, e non è questo il caso. Come che sia, di cosa parliamo esattamente? Si tratta di un tipo di carne prodotta in laboratorio a partire da cellule staminali embrionali di un animale (tipicamente polli, mucche o maiali), prelevate tramite una biopsia e fatte crescere in una soluzione ricca di nutrienti; dopo la crescita, possono essere poi trasformate in cellule di ogni tessuto (in particolare di quello muscolare): il risultato finale, dunque, è carne “a tutti gli effetti”.
Secondo le ultime stime, nel ventennio 2000-2020 il consumo di carne è costantemente aumentato (oltre il 50%, a livello globale), e ogni anno vengono macellati 50 miliardi di polli, un miliardo e mezzo di maiali, mezzo miliardo di pecore e 300 milioni di mucche. Si è valutato che produrre carne in laboratorio consentirebbe di ridurre di circa il 98% le emissioni di gas serra (rispetto a una quantità equivalente prodotta in modo tradizionale), soprattutto perché non ci sarebbe più necessità di impiegare allevamenti intensivi – e di tutta l’energia di cui abbisognano per funzionare – e perché sarebbero quasi completamente eliminate le emissioni di metano dei bovini; inoltre, si consumerebbero meno acqua, antibiotici e altri farmaci, e si occuperebbe fino al 95% di suolo in meno. Ancora: i prodotti coltivati in laboratorio possono essere arricchiti con specifiche sostanze (per esempio nutrienti) perché siano ancora più adeguati alle richieste dei consumatori, e dal momento che non sono esposti a pesticidi, funghicidi e antibiotici sembrerebbero essere anche più sicuri delle alternative tradizionali (il condizionale è d’obbligo, perché ancora non ci sono risultati definitivi in questo senso).
Ci sono poi, ovviamente, gli aspetti etici – la transizione alla carne “di laboratorio” permetterebbe di eliminare
quasi completamente la sofferenza e la macellazione degli animali di allevamento (quasi perché è ancora necessario servirsi degli animali per l’estrazione delle cellule e del siero fetale, uno degli ingredienti fondamentali del terreno di coltura, anche se attualmente sono in sviluppo alternative che ne prevedono la sostituzione con prodotti vegetali). E bisogna considerare, infine, la questione economica: uno dei principali problemi della carne basata su cellule, al momento, è il suo elevato costo di produzione (una stima precisa è molto difficile, perché i protocolli non sono ancora standardizzati); tuttavia, è ragionevole pensare che una produzione di massa porterebbe a un riscalamento dei costi per singola unità, in particolare di quelli per la trasformazione e la differenziazione delle cellule, il passo più dispendioso dell’intera filiera.
Sandro Iannaccone, fisico e giornalista. Insegna giornalismo scientifico al Master “La scienza nella pratica giornalistica” della Sapienza Università di Roma
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