Christiane Nüsslein-Volhard, la regina del moscerino della frutta
«Ho adorato lavorare con le Drosophile perché mi hanno seguito in giro per i miei sogni». È questa la sintesi della vita della biologa tedesca, una sentimentalista tra i rigoristi della scienza
Guardare il mondo con gli occhi della natura: è il credo a cui Christiane Nüsslein-Volhard ha aderito sin da piccola, e che l’ha portata a diventare una grande scienziata. Ma a farle ottenere più di una menzione nel dibattito sulla genetica moderna è stato senz’altro il merito di aver reso la Drosophila melanogaster, l’insetto che svolazza intorno alla frutta marcescente, un modello di lavoro.
Nata nel 1942, Christiane crebbe nella zona sud di Francoforte a due passi dalla foresta, libera di scorrazzare tra gli arbusti. Già in tenera età, però, pareva determinata: «All’età di dodici anni avevo le idee chiare, sarei diventata una biologa». I suoi docenti del liceo, nei loro report, la descrivono come una studentessa «dotata di un’intelligenza sopra la media, di un giudizio critico e qualificato e di talento innato per i lavori scientifici»; tuttavia, le performance scolastiche furono sempre proporzionate al suo interesse: se non aveva difficoltà a sviluppare nuove teorie sull’evoluzione della specie, rischiava invece di non superare l’esame di inglese o di portare a casa uno stentato «mediocre» nelle materie umanistiche.
Muovendo i primi passi alla scoperta della scienza da autodidatta, soffriva di non poter condividere i suoi studi: «Mi è mancato non aver avuto accanto qualcuno che mi spiegasse i meccanismi della natura. Ero l’unica in famiglia appassionata di scienze» confessa nell’autobiografia. Eppure Christiane, di temperamento tutt’altro che solitario, non era per niente intenzionata a scoprire da sola l’universo verde: riferiva costantemente delle sue letture scientifiche al papà architetto e alla mamma pittrice, entrambi affascinati dalla musica. A sorbirsi i suoi racconti green c’erano anche i quattro fratelli, due dei quali più tardi diventeranno architetti, una musicista e l’altra insegnante d’arte. Passioni che, invece, sfiorarono la Nobel solo tangenzialmente, quasi a marcare una distanza con il resto della famiglia.
Riservata e poco incline a mettersi in mostra, finì per la prima volta al centro dell’attenzione durante la cerimonia di consegna del diploma di maturità. In quella circostanza, dopo aver tenuto un discorso sul «Linguaggio degli animali» («Sprache bei Tieren»), una disamina frutto della lettura di Konrad Lorenz e altri biologi tedeschi, raccolse consensi trasversali: un motivo in più per perseguire con studi che andassero in quella direzione.
Tuttavia, «I corsi di biologia all’Università di Francoforte erano piuttosto noiosi. Sembrava che conoscessi già alcuni argomenti, per altro proprio i più interessanti». Insofferente e delusa dal fatto che le pareva di aver già acquisito anche da sola sufficienti competenze in quel campo, ripartì dalla biochimica, trasferendosi nel 1964 a Tubinga. Davanti a lei si aprirono allora due scenari: da una parte, noiose lezioni di chimica organica; dall’altra, però, la possibilità di portare avanti studi avanguardistici sulla biosintesi delle proteine e la replicazione del DNA: l’unico valido motivo per non cambiare strada. Convinta del potere della genetica nel consentire l’analisi di processi anche molto complessi, decise, per la tesi di dottorato, di occuparsi delle mutazioni che modificano l’informazione genica della cellula uovo.
È a questo punto della sua vita che si apre quella che probabilmente resta l’unica parentesi oscura in un’esistenza felice: un matrimonio lampo di cui quasi nulla si conosce, se non la volontà della scienziata di mantenere anche dopo la separazione il cognome del marito, Nüsslein, perché già utilizzato in diverse pubblicazioni. Dopo il fallimento della relazione coniugale, di fatto, il rapporto più indissolubile che Christiane stringerà sarà quello con la Drosophila.
Gli anni più importanti furono quelli che andarono dal 1978 al 1980, quando lavorò a Heidelberg gomito a gomito con il biologo statunitense Eric Wieschaus: fu lì che portò a termine l’analisi dei geni mutanti della Drosophila, identificandone un considerevole numero e pubblicando la scoperta su «Nature» nel 1980.
Ore e ore in laboratorio con risultati sorprendenti le valsero infine nel 1995 il Nobel per la medicina e la fisiologia, assieme a Edward B. Lewis e Eric F. Wieschaus. A lei, il merito di aver compreso che i geni omeotici (geni di controllo di una serie di altri geni adibiti allo sviluppo di un organismo) non sono gli unici a compiere la stessa funzione nella Drosophila. Il suo corpo, come quello di ogni altro organismo superiore, presenta un certo numero di assi (quello antero-posteriore, dorso-ventrale e una simmetria bilaterale destra sinistra); perciò, lo studio dei mutanti del moscerino ha permesso di chiarire quali sono i geni necessari per lo sviluppo dei vari assi. Una scoperta sensazionale, che guidò la scienziata dritta al Nobel. Durante la cerimonia di consegna, non nascose quanto il lavoro degli ultimi anni fosse stato frustrante; tuttavia, sottolineò anche come, allo stesso tempo, la gioia di aver compreso qualche mistero della scienza l’avesse ripagata di ogni fatica. «Questo animale è stato estremamente collaborativo nelle nostre mani e ci ha rivelato alcuni dei suoi più reconditi segreti», commentò nel suo discorso.
Oggi, all’età di settantaquattro anni, Christiane Nüsslein-Volhard vive nei pressi di Tubinga in un ex monastero del XIV secolo. È lì che alleva alcuni pesci zebra: dopo una vita dedicata ai moscerini, sono loro i suoi ultimi compagni di studio.
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