Clima e terra
Quella che riguarda l’Africa e il cambiamento climatico è una questione tragica, cui la politica locale può cercare di porre mano solo fino a un certo punto. Innanzitutto il continente africano, pur nella profonda diversità tra singoli Stati, sarà il luogo della Terra che maggiormente soffrirà le conseguenze disastrose della destabilizzazione ambientale. Questo a fronte della scarsa responsabilità da parte delle popolazioni africane nella loro interezza al cambiamento climatico, sia in termini di emissioni di gas serra e inquinamento che in termini di consumo delle risorse e distruzione degli ecosistemi
Pure al netto della questione di “giustizia storica”, che vede i paesi sviluppati principalmente occidentali aver goduto di uno sfruttamento incessante delle risorse naturali per circa 200 anni (spesso a carico della stessa Africa), la condizione attuale da parte di numerosi stati africani è di ritardo rispetto agli sviluppi economici e tecnologici dell’Occidente. Questo vuol dire un minor tempo di produzione, consumo, emissioni e inquinamento, che significa però per le popolazioni minori servizi, tutele e possibilità. Queste mancanze, accresciute dalla diseguaglianza dilagante tra Stati e tra fasce di popolazione nello stesso Stato, vanno dalla carenza di acqua potabile o elettricità alla denutrizione, dall’assenza di istruzione fino alla migrazione economica e ai conflitti armati tra gruppi. Tale arretratezza da una parte ha reso possibile l’avanzamento dei paesi sviluppati senza che il sistema Terra fosse soggetto a cambiamenti climatici ancora più rapidi e drastici, dall’altra rende la popolazione africana maggiormente esposta alle conseguenze del disastro ambientale.
Il rapporto sullo stato del clima in Africa (2022), elaborato dalla World Meteorological Organization (WMO), mostra che il tasso di aumento della temperatura nel continente africano ha subìto un’accelerazione negli ultimi decenni, con un aumento maggiore rispetto agli altri continenti (0,3 gradi per decennio nel periodo 1991-2022, rispetto a 0,2 gradi a livello globale). Nel 2022, più di 110 milioni di persone in Africa sono state direttamente colpite da rischi meteorologici, climatici e legati all’acqua, causando danni economici per oltre 8,5 miliardi di dollari. Secondo l’Emergency Event Database, sono stati segnalati 5.000 decessi, di cui il 48% sono stati associati alla siccità e il 43% sono stati associati alle inondazioni. Ma è probabile che il bilancio reale sia molto più alto a causa di vari fattori che favoriscono una sottostima.
Tale report fa notare inoltre come tutto ciò stia danneggiando la sicurezza alimentare, gli ecosistemi e le economie dei singoli Stati, alimentando sfollamenti e migrazioni e peggiorando la minaccia di conflitti per le risorse in diminuzione. La minaccia climatica, infatti, si rivela a un tempo minaccia sociale ed esistenziale, che va inizialmente a incidere in maniera drammatica soprattutto sulle situazioni più gravi. Gli stessi paesi più sviluppati, principalmente occidentali, sembrano non rendersi pienamente conto della differenza di impatto che le stesse misure di mitigazione potranno avere per numerosi Stati africani. L’Accordo di Parigi, per esempio, stabilisce la misura massima di 2 gradi per quanto riguarda l’innalzamento della temperatura in vista del 2100, e sebbene tale promessa verrà sicuramente tradita, lo stesso aumento di “soli” 2 gradi comporta per diverse regioni africane un disastro di proporzioni enormi in termini socio-economici. Come si vede nella figura qui sotto, infatti, ciò che per un paese europeo può essere un aumento tollerabile, non corrisponde allo stesso per diversi paesi dell’Africa.
Il limitato sviluppo tecnologico e sistemico inoltre, che richiede a un tempo certo minore mitigazione delle emissioni da parte di tali paesi, collega più strettamente la realtà socio-economica africana ai mutamenti ambientali. Si pensi che l’Africa sub-sahariana conta il 95% dell’agricoltura mondiale alimentata dalla pioggia e il PIL delle singole nazioni è costituito in larga parte dalla stessa agricoltura, con altre attività sensibili alle condizioni atmosferiche, come allevamento e pesca. Il che comporta una costante minaccia sia per i redditi delle famiglie che grazie a tali attività vivono o sopravvivono sia una maggiore insicurezza alimentare e così esistenziale. Non a caso sette dei dieci paesi identificati come i più vulnerabili ai cambiamenti climatici si trovano in Africa. Nel 2015, inoltre, quattro paesi africani si sono classificati tra i 10 paesi più colpiti: Mozambico (1°), Malawi (3°), Ghana e Madagascar (8° posizione congiunta).
Gli shock climatici peggiorano pertanto le fragilità strutturali, come i conflitti e la fame, esacerbando ulteriormente l’effetto che hanno sull’economia e sul benessere delle persone. Le stime del Fondo Monetario Internazionale (IMF) sono che in uno scenario ad alte emissioni globali, a parità di condizioni per i restanti valori, le morti dovute ai conflitti in percentuale della popolazione potrebbero aumentare di quasi il 10% nei paesi fragili entro il 2060. Il cambiamento climatico spingerebbe inoltre altri 50 milioni di persone alla fame entro il 2060 negli stati più in difficoltà.
Per questo la grande maggioranza delle nazioni africane aderisce e ha aderito ai numerosi programmi di contrasto al cambiamento climatico promossi principalmente dalle Nazioni Unite. Va però considerato, in termini di politica africana, che le emissioni da esse prodotte attualmente e nel tempo (così come altri fattori che favoriscono il cambiamento climatico) sono scarse e gli stessi consumi, ad esempio, di 50 keynesiani non fanno il consumo di 1 cittadino statunitense. Altrettanto scarsi però sono i finanziamenti che gli stessi paesi dell’Africa dedicano al contrasto del cambiamento climatico, soprattutto perché necessari (esclusi i casi peggiori) a una politica di sostegno alla popolazione in termini di necessità e servizi. Questo comporta che la duplice azione che tali realtà dovrebbero avviare fin da subito, quella da una parte di mitigazione dei processi che favoriscono il cambiamento climatico e dall’altra di adattamento sociale agli stessi, risultano tutt’oggi al più claudicanti al meno inesistenti (specialmente rispetto a quanto visto in paesi sviluppati).
L’unica soluzione pensabile è un sostegno e un contributo a livello internazionale, da parte principalmente dei paesi più avanzati, per avviare o favorire i processi virtuosi tanto di mitigazione quanto di adattamento. Questo sia come compensativo delle “emissione storiche” prodotte dall’Occidente, sia come spinta a evitare che la grande massa di popolazione crescente (soprattutto in Africa) possa giungere, anche tramite migrazioni drammatiche, a ricercare un quantitativo di consumi pari o anche solo simile a quelli occidentali. Il che impedirebbe anche ai paesi più avanzati di poter pensare una risposta efficace al cambiamento climatico, essendo il tema della sovrappopolazione uno dei tre pilastri sociali del disastro ambientale (insieme alla crescita costante di produzione e consumi e all’inquinamento con relativa distruzione degli ecosistemi). Una “giustizia riparativa” che però favorisca così le future generazioni di tutto il globo, magari lavorando a partire proprio da quello che manca in tali paesi, vale a dire un sistema energetico strettamente dipendente dal combustibile fossile (in cui Occidente e paesi avanzati sono invece impelagati). Così che, se si evita di fare di tali paesi non ancora sviluppati terreno fertile per le multinazionali dei combustibili fossili, potrebbero avviarsi o favorirsi proprio in quei luoghi progetti di sistemi energetici e sociali integrati alternativi, fondati sulle energie rinnovabili e lo scambio sostenibile con l’ambiente naturale.
Matteo Pietropaoli, filosofo e ricercatore a tempo determinato di tipo A presso il dipartimento di filosofia della Sapienza Università di Roma
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