Come vorremmo essere
La riflessione di uno scienziato
di Marco Crescenzi
Riflessioni e un’approfondita analisi sulla cultura, la scienza e il ruolo fondamentale di scienziati e ricercatori. L’etica, la passione, l’onestà dello scienziato vengono messe in discussione oggi da tanti fattori. Come un compositore, lo scienziato mette gioia e orgoglio nel suo lavoro, per partecipare, in prima persona, alla costruzione di un piccolo frammento del sapere
La più smisurata creazione dell’umanità non è la Grande Muraglia cinese. La più stupefacente non è la piramide di Giza. Quella più protesa verso l’alto non è il grattacielo di Burj Khalifa a Dubai. La costruzione più grandiosa del genere umano è la sua multiforme cultura, che si è espansa per centinaia di migliaia di anni, col contributo grande o piccolo di tutti gli uomini e le donne che si sono succeduti sulla faccia della Terra.
“La costruzione più grandiosa del genere umano è la sua multiforme cultura”
Una larga parte del nostro sapere è costituita dalla scienza, che indaga il mondo naturale in tutti i suoi aspetti. Dalla fisica, che esplora l’essenza profonda dell’universo di cui facciamo parte; alla chimica, che ci permette di creare sostanze e materiali che spesso non esistono in natura; alla biologia, che ci ha rivelato l’immane complessità dell’unica vita che conosciamo. E poi la psicologia, la sociologia e l’economia, in cui l’uomo esplora se stesso e il suo comportamento. E ancora la geologia, che studia il nostro pianeta e si rivolge anche ai corpi celesti a noi più vicini; l’astronomia, che si espande nella cosmologia… È sbalorditivo considerare la quantità di conoscenza che siamo stati capaci di generare, giungendo a una comprensione della realtà che trascende grandemente i limiti dei sensi e dell’intuizione.
Vorrei qui riflettere sul ruolo e sull’etica dei ricercatori – una delle troppe categorie del lavoro maltrattate in Italia – perché se consideriamo la conoscenza come il più grande dei nostri beni, allora dobbiamo dare credito agli scienziati di tutti i luoghi e le epoche di averci elargito uno dei doni più preziosi che possiamo offrire ai nostri simili. Continuiamo ad affidarci a loro per espandere e approfondire il nostro sapere, e dobbiamo metterli in grado di svolgere al meglio il loro compito. Sono dediti a indagare la natura, a spingere in avanti i confini della conoscenza e della comprensione del mondo. Consapevoli che l’oceano sconosciuto che esplorano con le loro modeste navicelle è infinito; e che nessun progresso scientifico ci farà mai avvistare dall’alto dell’albero di maestra la riva della destinazione finale.
Purtroppo, negli ultimi decenni, la scienza ha subito una progressiva metamorfosi. Molto più che in passato, è piagata da competizione esasperata, plagiarismo, pubblicazioni mercenarie, conflitti di interesse e alterazione o aperta falsificazione di risultati. Sono aberrazioni che non si limitano a produrre guasti nell’ambito del sapere accademico, ma hanno gravi conseguenze in campi di applicazione pratica. L’esempio più nefasto è quello della medicina, in cui dati falsi o tendenziosi arrecano quotidianamente danno e morte a schiere di pazienti. Queste intollerabili distorsioni derivano in parte significativa dall’aziendalizzazione dell’impresa scientifica, al pari di ogni altra funzione pubblica. Ciò è avvenuto nel mondo scientifico a partire dagli anni Novanta, come espressione del New Public Management di derivazione neoliberista. È un sistema che vorrebbe gestire la ricerca scientifica come un’impresa da ottimizzare, misurandone la qualità e i risultati attraverso “indicatori oggettivi”. Un metodo che è con noi da un tempo ormai così lungo da sembrare inevitabile, connaturato all’impresa scientifica. Ma non lo è, e non è neppure funzionale. Ha portato con sé una burocratizzazione asfissiante, l’uso distorto e l’abuso di indicatori come l’impact factor e l’h-index, l’estesa precarizzazione della carriera scientifica e la famigerata condizione del publish or perish, quella che costringe gli scienziati a una corsa frenetica alla pubblicazione. Corsa che, mentre accresce la quantità dei “prodotti” scientifici, ne degrada inevitabilmente la qualità e l’attendibilità. Dobbiamo difendere i ricercatori da questa vuota visione aziendalistica della ricerca, ricordando loro al tempo stesso i valori deontologici fondanti della professione che esercitano.
“Dobbiamo difendere i ricercatori da questa vuota visione aziendalistica della ricerca, ricordando loro al tempo stesso i valori deontologici fondanti della professione che esercitano”
Sappiamo che gli scienziati sono persone comuni, soggette a debolezze e cadute come chiunque altro. L’etica che dovrebbe sempre guidarli può partire da un assunto: lo scienziato lavora sempre per l’umanità. Questa affermazione, che a un primo sguardo può sembrare idealista, ingenua o retorica, deriva da una semplice considerazione: da sempre, le scoperte e le invenzioni realizzate in un luogo e in un tempo specifici si sono diffuse, prima o poi, al mondo intero. Incluse le più gelosamente custodite, le più segrete, anche quelle con scopi militari. Gli scienziati possono quindi ben credere di lavorare per se stessi, per la loro istituzione o per il loro Paese. Ma alla fine, che ne siano consapevoli o meno, che lo vogliano oppure no, i frutti del loro impegno raggiungono tutti gli abitanti del pianeta. Oggi anche molto rapidamente, grazie alla velocità di diffusione delle informazioni e alla interdipendenza dei popoli del mondo. Con una metafora ben nota, possiamo dire che gli scienziati appongono costantemente le loro pietre sull’edificio del sapere, innalzato da tutti coloro che li hanno preceduti. È un’unica costruzione, la più pubblica che esista, sempre aperta e a disposizione dell’intero genere umano.
Possiamo far discendere l’etica della persona di scienza dai suoi obblighi verso l’umanità. Lo scienziato deve essere integro, obiettivo e imparziale: ogni faziosità, ogni egoismo, ogni inganno si ripercuote sul resto del mondo. Perciò per lo scienziato il rigore intellettuale deve essere una forma mentis: non deve neppure chiedersi se possa prendere qualche scorciatoia, “aggiustare” qualche dato nel proprio personale interesse: la risposta è sempre e comunque no. Gli scienziati devono cooperare coi loro colleghi, perché tutti lavorano per un obiettivo comune. Può esistere competizione fra loro, purché sia leale e stimolante, non disonesta e conflittuale. Lo scienziato deve istruire e formare i giovani ricercatori: il suo impegno verso l’umanità non si esaurisce con quella presente, ma si estende a tutte quelle che verranno in futuro, perché l’edificio della conoscenza è lì per restare. Il sapere che la persona di scienza genera appartiene a tutti, non solo agli scienziati di professione: in questo non è diverso dalle opere d’arte e dagli altri frutti dell’ingegno dell’uomo, di cui godiamo nella nostra vita e che lasciamo in eredità ai nostri simili che verranno. Il sistema di produzione della conoscenza non dovrebbe spingere i ricercatori a violare questo codice morale, come purtroppo fa oggi.
“Lo scienziato deve istruire e formare i giovani ricercatori: il suo impegno verso l’umanità non si esaurisce con quella presente, ma si estende a tutte quelle che verranno in futuro, perché l’edificio della conoscenza è lì per restare”
La ricerca scientifica richiede studio, impegno, pazienza, tempo, fatica e dedizione. Può generare immensa frustrazione, mentre i frutti degli sforzi profusi non sono sempre assicurati o proporzionati all’investimento. Perché gli scienziati, nonostante tutto questo, amano il loro lavoro? Le motivazioni sono certamente molte e diverse; qui mi piace menzionarne una sola. Altrove ho scritto che il ricercatore è curioso per natura, eppure non lavora per appagare la propria curiosità: quella può essere soddisfatta molto più facilmente attingendo allo sconfinato tesoro di sapere che abbiamo accumulato. Piuttosto credo che per molti di noi interrogare la natura sia come fare musica. Chi suona uno strumento per lo più non aspira a produrre un’esecuzione sublime: quella può facilmente acquistarla per pochi spiccioli. Lo fa per l’insostituibile piacere di sentire scaturire la musica da se stesso. In ugual modo, molti scienziati fanno il loro mestiere per la gioia e l’orgoglio di aggiungere con le loro mani qualche pietra all’immensa cattedrale del sapere.
Questo breve articolo è diretto principalmente agli studenti che oggi si preparano a diventare gli scienziati di domani. Il senso più profondo del loro studio è quello di ricevere dalla generazione che li precede, dalle mani dei loro docenti, la fiaccola del sapere. Auguro loro di tenerla alta, di portarla più avanti possibile e di non lasciarla mai cadere.
Marco Crescenzi, medico e Direttore del Servizio grandi strumentazioni e core facilities dell’Istituto Superiore di Sanità.
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