Dentro la nostra testa

Dentro la nostra testa

Ripercorrere la storia dei nostri antenati, capire quello che raccontano le ossa e i denti, scoprire la variabilità di Homo sapiens e degli altri primati, sono alcuni degli obiettivi del Museo di Antropologia G. Sergi, la cui sede si trova al secondo piano dell’edificio di Antropologia della Sapienza. Grazie a Giorgio Manzi che ci ha aperto le porte del museo, siamo potuti entrare “dentro la nostra testa” e ne abbiamo approfittato per farci raccontare alcune curiosità.

Intervista a Giorgio Manzi

di Mattia La Torre, Diego Parini e Carmine Nicoletti

Come nasce il Museo di Antropologia?

Il Museo di Antropologia afferisce al Dipartimento di Biologia Ambientale e si trova nell’edificio che è stato per più di un secolo l’Istituto di Antropologia, edificato quando venne costruita la Città Universitaria. Il museo nasce nel 1884 grazie a Giuseppe Sergi, intellettuale poliedrico a cui il museo è stato intitolato. G. Sergi fu filosofo, psicologo e poi antropologo e pedagogista; un’importante figura del positivismo italiano dalla fine dell’Ottocento ai primi del Novecento, che ha dato inizio qui a Roma a due scuole: la psicologia funzionale e l’antropologia “fisica” o bio-naturalistica. Quando fu costruita la Città Universitaria, verso la metà degli anni Trenta, all’Istituto di Antropologia vennero destinati i piani superiori dell’edificio dove il museo si trova oggi, in un ampio vano ad esso dedicato.

Quali reperti troviamo nel museo?

Sin dall’inizio si venne a creare un primo nucleo del museo dell’Istituto di Antropologia, destinato a raccolte tipiche dell’Ottocento che tentavano di imbrigliare la variabilità umana attraverso reperti, soprattutto scheletrici, provenienti da tutto il mondo. Furono raccolte collezioni che documentano tutt’oggi la variabilità della nostra specie a livello planetario. Il museo è stato poi impreziosito dalle scoperte paleoantropologiche dei primi decenni del Novecento: i crani di Saccopastore, in particolare, due Neanderthal trovati proprio qui a Roma; come anche vi è stato conservato a lungo il cranio di grotta Guattari al monte Circeo, tornato recentemente di attualità grazie a nuove importanti scoperte in quella stessa grotta.

Il Neanderthal di cui parla è lo stesso che racconta nel libro “L’ultimo Neanderthal racconta, storie prima della storia”?

Con i Neanderthal identifichiamo un’umanità che non c’è più, una specie umana estinta, molto simile a noi per tanti aspetti, ma al tempo stesso con caratteristiche fondamentali diverse dalle nostre, sia sul piano genetico e morfologico, sia sul piano cognitivo. Sebbene ci siano evidenze archeologiche sui Neanderthal che ci parlano di embrioni di pensiero simbolico, e quindi della loro capacità di immaginare qualcosa che va al di là della mera sopravvivenza, sappiamo che non raggiunsero mai quelle proprie di Homo sapiens.

Perché siamo affascinati dai Neanderthal?

I Neanderthal hanno un grande fascino anche perché sono dentro di noi. Negli ultimi 15 anni abbiamo capito che un po’ del loro DNA è finito all’interno del nostro DNA, a seguito di incroci avvenuti tra i primi Homo sapiens e alcune popolazioni dei Neanderthal, prima della loro estinzione. Queste scappatelle, come le chiamo io, hanno dato vita a ibridi fertili che hanno portato porzioni di DNA Neanderthal nel nostro genoma. In un certo senso, si può affermare che i Neanderthal non si siano del tutto estinti.

Le nuove tecnologie hanno contribuito alle nostre conoscenze sui Neanderthal?

La paleoantropologia si è straordinariamente sviluppata negli ultimi decenni. Sono cambiate tante cose dal punto di vista dell’impostazione teorica di fondo e della metodologia, con una quantità di nuove tecniche di analisi. Quella che nell’immaginario di molti è ancora una disciplina ferma in un passato polveroso, fatto di strumenti di metallo e di crani da misurare, è diventata una scienza sofisticata. Uno dei più importanti progressi metodologici è dovuto alla paleogenetica. Nel 1997 abbiamo scoperto che siamo in grado di estrarre DNA anche dai fossili, come ad esempio proprio dai Neanderthal. Da reperti conservati in certe condizioni è possibile estrarre porzioni importanti di DNA, riuscendo ad avere informazioni genetiche anche su una specie estinta. Come i cosiddetti Denisova, una parola nuova entrata nel vocabolario dei paleoantropologi da una dozzina d’anni. Tutto è partito dalla falange di un dito mignolo rinvenuta in una grotta dei monti Altaj in Siberia, dal quale è stato possibile estrarre l’intero genoma di varietà umana estinta fino ad allora sconosciuta.

In questi studi è presente una parte molto scientifica dettata dal numero, ma anche molta immaginazione, un elemento caratterizzante anche del libro. Che ruolo ha avuto l’immaginazione in questo percorso?

Bisogna distinguere, perché i dati sono dati scientifici: sono riproducibili, non c’è fantasia. Poi, certo, è presente una quota di interpretazione, come in qualunque disciplina scientifica, ma prima ci sono i dati e poi ci sono poi i modelli interpretativi, che si legano al contesto delle conoscenze. Se invece parliamo di divulgazione scientifica, la componente fantastica serve semplicemente per raggiungere il pubblico, ad esempio le tante persone che ancora non credono (sembra impossibile) nel fatto dell’evoluzione biologica. In realtà non sanno che questa teoria scientifica è valida ormai da 150 anni e che si è arricchita, sviluppata ed estesa nel corso degli ultimi 50 anni. La fantasia possiamo allora usarla per raccontare la scienza a un pubblico quanto più vasto possibile, anche privo di una preparazione scientifica. E, indubbiamente, le nostre origini e il nostro passato sono argomenti che affascinano.

Con i contributi su “Le scienze”, che lei periodicamente propone, ha in mente questo tipo di divulgazione corretta?

È un’esperienza per me molto interessante, che va avanti da quasi 15 anni. Con questa rubrica mensile riesco a raggiunge un pubblico diverso, composto di persone interessate che hanno già una preparazione di base: chi legge “Le scienze” ha un’impostazione scientifica. Tuttavia, anche in questo caso è necessario raccontare le storie della paleoantropologia, che non tutti conoscono e che propongono sempre cose nuove. Infatti, non ho nessuna difficoltà a trovare ogni mese un nuovo tema da sviluppare.

Cosa prevede il futuro per il museo e per la ricerca sulla storia delle nostre origini?

Ci sono tanti aspetti ancora da indagare, è il classico caso in cui più ne sappiamo e più sono complicate le domande. È certamente un campo in grande sviluppo anche grazie alle nuove tecnologie e agli impianti sia teorici che metodologici. Come museo possiamo cercare di raccontare, a un pubblico sempre più numeroso, ma soprattutto alle generazioni più giovani, storie accadute molto prima della storia e che ci riguardano profondamente, a tal punto da essere ciò che ci ha plasmati.

Perché l’uomo di Altamura è ancora nella grotta dove è stato scoperto?

L’uomo di Altamura è uno scheletro completo di Neanderthal, anzi è il più completo al mondo. È stato scoperto verso la fine del 1993, ma è ancora lì sottoterra, a sei metri di profondità, incastonato fra concrezioni calcaree. Malgrado tutti i nostri sforzi, non siamo ancora riusciti a convincere la popolazione e l’insieme delle istituzioni coinvolte che quello scheletro può rappresentare un vero e proprio tesoro soltanto se viene estratto dalla grotta. A quel punto, potrebbe essere non solo una miniera di informazioni scientifiche (alcune del tutto inedite), ma anche una grande risorsa per il territorio di Altamura. Ne potrebbe scaturire una divulgazione di altissimo livello e un’occasione di visibilità della ricerca in Italia; magari attraverso la realizzazione di un museo, a cui il Comune di Altamura ha iniziato a pensare negli ultimi anni, che si sviluppi man mano che le ricerche su questo reperto e sul sito proseguiranno; al tempo stesso, sarebbe una formidabile attrattiva per il turismo e un vantaggio per l’economia della città e della Puglia in genere.

Giorno Manzi, Paleoantropologo presso il Dipartimento di Biologia Ambientale della Sapienza Università di Roma

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