Fra dinamiche del tempo profondo e fossili di neurocranio: intervista ad Alessio Iannucci
A Collepardo, un paese nei pressi di Frosinone, è stato rinvenuto il più completo fossile di neurocranio di Sus arvernensis, un cinghiale che popolava il continente europeo durante il Pliocene. Alessio Iannucci, dottorando di Sapienza Università di Roma, spiega l’importanza della scoperta e il suo percorso personale
Il ritrovamento di un fossile di neurocranio di Sus arvernensis ha posizionato un importante tassello per una maggiore comprensione del percorso evolutivo della famiglia dei suidi e delle relazioni fra i suoi membri. A raccontare di più su di se e su questo ritrovamento, Alessio Iannucci: dottorando del dipartimento di scienze della terra di Sapienza Università di Roma.
Buongiorno Alessio, prima di parlarci di questa scoperta, puoi raccontarci di più su di te?
“Sono un dottorando del dipartimento di scienze della terra di Sapienza e mi occupo principalmente dell’evoluzione dei suidi. È un gruppo che comprende il cinghiale, il facocero e diverse altre specie meno conosciute. Le implicazioni delle ricerche in questo campo possono andare dall’utilizzo per ricostruzioni ambientali o per la biocronologia, la scienza che si occupa delle correlazione nel tempo di eventi biologici”.
Oltre al lavoro hai altri interessi?
“Non faccio molto, specialmente questo ultimo periodo di pandemia. Fare il ricercatore non è un lavoro da ufficio dove a fine turno si lascia la penna e si volta pagina. È un lavoro che occupa tutta la giornata, soprattutto mentalmente, perlomeno se uno lo fa con passione. È anche fondamentale, però, cercare di ritagliarsi degli spazi per staccare”.
Che percorso ti ha permesso di fare un dottorato simile?
“Dunque, io ho fatto il percorso universitario dentro Sapienza facendo scienze naturali alla triennale e poi scienze della natura alla magistrale. Non sono come tanti che hanno la vocazione o il pallino per i dinosauri da piccoli, molti hanno visto un film o un documentario e si sono appassionati. Io no. Mi sono appassionato direttamente all’università. Con la paleontologia è possibile studiare le dinamiche del tempo profondo dell’evoluzione. Nelle scienze naturali, in genere, ci sono due grossi temi che legano un po’ quest’idea. Una è quella dell’evoluzione, appunto, che è un’idea molto forte e importante, e l’altra è quella del tempo profondo. Noi abbiamo la percezione del tempo umana in termini di tempo storico. Quando poi si ragiona sul tempo geologico, si parla di migliaia e poi milioni di anni e le cose che sono improbabili magari diventano possibili. La paleontologia dà l’opportunità di andare direttamente a ad approfondire questi temi. In fondo, i fossili sono l’unico oggetto concreto che abbiamo di tempi così remoti, il resto sono solo ricostruzioni”.
Perché proprio la famiglia dei suidi?
“È capitato un po’ per caso. C’erano dei reperti interessanti non studiati e ho iniziato approfondire quel tema. Poi mi sono reso conto che c’erano delle domande aperte interessanti ed è stata la base per la proposta del progetto di dottorato”.
Che genere di domande?
“Sono domande per chiarire passaggi dell’evoluzione e la distribuzione di certe specie in un certo intervallo temporale. Oppure spesso riguardano dei cambiamenti di dimensione e morfologia e a che cosa possono essere ricollegati. Per esempio, nel cinghiale si osservano nel passato diversi cambiamenti di taglia. La specie è a oggi distribuita praticamente in tutto il continente eurasiatico e ha una grande variabilità di dimensioni e morfologia. Nel passato osserviamo dinamiche molto complesse di cambiamenti di taglia che aggiungono una dimensione di complessità al problema perché alla dimensione geografica si aggiunge anche quella temporale. Un altro esempio viene da uno studio che abbiamo fatto in Puglia, una zona geograficamente ristretta e con un record fossile molto buono. Abbiamo visto che ci sono stati diversi cambiamenti di taglia della fauna locale legati a dinamiche glaciale e interglaciali e questo può rappresentare la risposta adattativa di queste specie ai cambiamenti climatici o ai cambiamenti delle risorse trofiche”.
Puoi raccontarci di più sul ritrovamento del fossile di neurocranio?
“Abbiamo studiato questa specie, Sus arvernensis, che è una specie del genere che comprende il cinghiali e la maggior parte delle specie presenti nel sud-est asiatico. Alcune sono a rischio d’estinzione e altre sono poco studiate. Questa specie si è diffusa nel pliocene e questo ha rappresentato un momento importante perché, alla fine del miocene, c’è stato un ritorno a condizioni più umide dopo un trend di progressiva aridità. Sus arvernensis è la prima specie di un gruppo di successo che ancora oggi resiste. Il ritrovamento del reperto di Collepardo è importante perché ci ha permesso, per la prima volta, di analizzare l’anatomia interna, la struttura del cervello e dei seni paranasali che non erano mai stati investigati in questa specie. Ci ha permesso di individuare delle cose che non ci aspettavamo come, per esempio, delle somiglianze nell’architettura generale del cranio con specie come l’ilocero, un cinghiale gigante africano, e il babirussa, che è tipico del sud-est asiatico. In generale il messaggio che viene da questo lavoro è che sappiamo ancora poco e che questa è una linea di ricerca che ci darà tante soddisfazioni”.
Quali saranno i tuoi prossimi obiettivi?
“C’è molto da fare e c’è molto poco che è stato fatto. Il mio lavoro di ricerca è sostanzialmente un continuo peregrinare tra varie istituzioni che contengono reperti importanti. Recentemente sono stato a Basilea per un lavoro ma purtroppo in questo ultimo periodo non si è riuscito a organizzare molto. Quello che continuerò a fare è viaggiare per studiare questo gruppo di mammiferi”.
Immagine in evidenza: https://www.uniroma1.it/en/notizia/study-wild-boars-brain-over-3-million-years-ago
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