Dna antichissimi
Da dove veniamo, e che rapporto abbiamo con gli ominidi estinti? Le importanti scoperte sul Dna antico sono valse a Svante Pääbo il premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia 2022.
di Sofia Gaudioso, Francesca Stazzonelli e Federica Villa
l premio Nobel per la Medicina è stato assegnato quest’anno al biologo e genetista svedese Svante Pääbo «per le sue scoperte sul genoma degli ominidi estinti e sull’evoluzione umana». Dal sequenziamento del genoma dell’uomo di Neanderthal alla scoperta delle probabili interazioni con l’Homo sapiens, Pääbo ha dedicato la sua carriera scientifica allo studio del dna antico. Rivelando le differenze genetiche che distinguono gli esseri umani moderni dagli ominidi estinti, le sue scoperte forniscono la base per esplorare ciò che ci rende unici.
Svante Pääbo la ricerca scientifica ce l’ha nel sangue. Nato nel 1955 a Stoccolma, è figlio della chimica estone Karin Pääbo e del biochimico svedese Sune Bergström, anche lui vincitore del premio Nobel per la Medicina nel 1982, esattamente 40 anni prima del figlio. Ma non solo: Pääbo è anche grande esperto dell’antichità, passione che lo ha portato, fin dai tempi del dottorato in medicina, a studiare antiche mummie e uomini preistorici e a chiedersi se sarebbe mai stato possibile estrarre e studiare il dna dai fossili.
La risposta è sì. E proprio questa risposta, insieme ad altre scoperte straordinarie, gli sono valse il Nobel. Pääbo è considerato infatti uno dei fondatori di una nuova disciplina scientifica, la paleogenomica, ovvero lo studio del passato attraverso l’esame del materiale genetico proveniente dai resti di antichi organismi. In questo caso, gli antichi organismi sono i nostri avi. Perché Pääbo concentra le sue ricerche sullo studio del dna antico fin dal 1997, quando diventa direttore del dipartimento di Antropologia evoluzionistica del Max Planck Institute di Lipsia, in Germania. In quello stesso anno Pääbo e i suoi colleghi annunciano di aver sequenziato il dna mitocondriale (mtDna) dell’uomo di Neanderthal, proveniente da un esemplare trovato nella grotta di Feldhofer, nella valle di Neander. E dieci anni dopo annunciano pubblicamente l’intenzione di ricostruire l’intero genoma dell’uomo di Neanderthal. Il 2010 è un anno eccezionale per Pääbo e per la paleogenomica: il biologo svedese pubblica su Nature un rapporto sull’analisi del dna di un osso di un dito trovato nella grotta di Denisova in Siberia e i risultati suggeriscono che l’osso apparteneva a un membro estinto del genere Homo non ancora scoperto, l’uomo di Denisova.
Dopo pochi mesi, Svante Pääbo e il suo team riescono a sequenziare il genoma del Neanderthal e pubblicano anche questa scoperta su Science. E grazie a questo studio concludono che molto probabilmente, tra i 50mila e i 60mila anni fa, c’è stato un incrocio tra i Neanderthal e gli esseri umani eurasiatici (ma non quelli dell’Africa subsahariana). Una delle implicazioni delle sue ricerche, infatti, è che il trasferimento di geni da questi ominidi ormai estinti all’Homo sapiens è avvenuto in seguito alla migrazione dall’Africa circa 70mila anni fa. Questo antico flusso di geni verso gli esseri umani odierni ha oggi una grande rilevanza fisiologica, perché, ad esempio, influenza il modo in cui il nostro sistema immunitario reagisce alle infezioni.
Ma come è riuscito Svante Pääbo a scoprire tutto questo? Studiando sin da giovane come isolare, sequenziare e analizzare il dna da campioni molto antichi di diverse specie, mantenendo ben saldo l’obiettivo di poterlo fare un giorno con campioni provenienti dalle ossa dei Neanderthal. Le sue prime ricerche si sono basate sull’analisi del dna mitocondriale, perché è quello presente nel maggior numero di copie all’interno della cellula e che prometteva maggiori chance di successo. Questo dna, trasmesso alla prole solo per via materna, contiene però informazioni parziali sul genoma cellulare. Ciò ha spinto Pääbo a voler esaminare anche il dna nucleare, grazie ad una nuova tecnica di sequenziamento altamente efficiente e alla collaborazione con esperti di genetica delle popolazioni.
Le difficoltà incontrate lungo il percorso non sono state poche. Prima tra tutte quella della contaminazione delle ossa risalenti al Pleistocene con il dna dei batteri e di tutti coloro che avevano maneggiato i campioni. Problema che ha risolto progettando delle camere sterili specializzate, in grado di ridurre al minimo la contaminazione. Ma poi si sono presentate altre sfide cruciali. Ad esempio, determinare la quantità di dna antico presente in un campione e comprendere quali modifiche potesse aver subito nel tempo dal punto di vista biochimico e quali potessero essere le migliori condizioni per conservarlo intatto. Pääbo e il suo team non si sono persi d’animo e negli anni sono riusciti a proporre diverse soluzioni, identificando i tipi di danni a cui il dna antico può andare incontro e sviluppando metodi di estrazione e purificazione del dna basati sull’uso della silice. E scoprendo che le basse temperature riducono di gran lunga il tasso di deterioramento dei campioni.
Così, un tassello alla volta, Pääbo e colleghi hanno stravolto totalmente la comprensione della nostra storia evolutiva. Non solo, hanno anche aperto la strada alla possibilità di scoprire nuove informazioni sulle funzioni di parte del nostro genoma. Infatti, sono state identificate diverse associazioni tra i genotipi arcaici provenienti dai Neanderthal e i fenotipi di Homo sapiens, che in alcuni casi sono anche patologici. Il lavoro di Pääbo offre quindi la possibilità di comprendere come questo flusso genico, seppur così antico, influenzi la fisiologia dell’essere umano dei nostri giorni.
Sofia Gaudioso, Francesca Stazzonelli e Federica Villa studentesse del Master La Scienza nella Pratica Giornalistica della Sapienza Università di Roma.
Commenti recenti