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Effetto fotoelettrico: misurato il “ritardo” dell’elettrone

A 100 anni dal Nobel per la fisica assegnato ad Albert Einstein, un gruppo di ricerca dell’università Goethe di Francoforte riesce a misurare, con l’aiuto di uno speciale microscopio, l’intervallo piccolissimo che un elettrone impiega per essere espulso da una molecola di monossido di carbonio

di Alessandra Volpe

Solo pochi attosecondi è tutto ciò che serve a un fotone per liberare un elettrone dalla superficie di un materiale. Dalla secolare teoria dell’effetto fotoelettrico formulata da Albert Einstein, l’emissione di un elettrone da un materiale investito da radiazione elettromagnetica, nessun fisico era riuscito a misurare il lasso di tempo necessario affinché un elettrone fosse espulso. Poiché il fenomeno è così veloce, gli scienziati pensavano che il tempo di emissione fosse così breve da non riuscire a misurarlo con precisione. Semplicemente, si riteneva che la fotoemissione fosse istantanea. È veramente così?

A rispondere, oggi, è un gruppo di ricerca dell’università Goethe di Francoforte.

Il tempo che intercorre tra l’assorbimento di fotoni e l’emissione di elettroni è molto difficile da misurare perché è solo questione di attosecondi

spiega Till Jahnke, professore presso l’Istituto di fisica nucleare. L’elettrone viene emesso alcuni miliardesimi di miliardesimi di secondo dopo che l’atomo è stato investito dalla radiazione. Per capire l’importanza della scoperta, bisogna partire dall’origine, ossia, per l’appunto, dalla scoperta dell’effetto fotoelettrico.

Albert Einstein, un giovane impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna, più di cento anni fa, propose una teoria rivoluzionaria sull’esistenza dei quanti di luce (i fotoni), evidenziando la natura particellare della radiazione elettromagnetica, considerata fino ad allora solo come un‘onda. Nel marzo del 1905, fu pubblicato sugli Annalen der Physik, la più importante rivista di fisica dell’epoca, il primo dei quattro articoli che gli fecero aggiudicare il Nobel per la fisica del 1921 (assegnato nel 1922) in cui spiegava l’effetto fotoelettrico. Einstein gettò le basi della meccanica quantistica considerando il fenomeno come conseguenza dell’urto fra un proiettile incidente (un fotone) e un elettrone immerso nel metallo.  

Ma quanto tempo ci vuole perché un atomo emetta effettivamente un elettrone? Questa domanda ha incuriosito gli scienziati per decenni. Nei primi studi si presumeva tacitamente che l’emissione di elettroni fosse istantanea. Settant’anni fa, i lavori teorici pionieristici di Leonard Eisenbud e Eugene Wigner (e più tardi Felix Smith) spianarono la strada al concetto di un possibile ritardo di fotoemissione.

Cosa si intende per ritardo nel linguaggio della meccanica quantistica? L’elettrone che viaggia come un’onda risente dello sfasamento (la differenza della sua ampiezza e frequenza inziale) causato dall’energia potenziale dell’atomo o della molecola ionizzata. Questo cambiamento di fase, rispetto alla fase di un’onda che è in una regione libera da potenziale, è stato definito la fase di Wigner.

Solo i recenti progressi nella scienza degli attosecondi hanno permesso di ottenere le misurazioni dirette della dinamica degli elettroni. “Finora è stato impossibile misurare direttamente questa durata, motivo per cui ora l’abbiamo determinata indirettamente”. Gli scienziati, per condurre l’esperimento, hanno irradiato una molecola di monossido di carbonio con un fascio di raggi X ad alta intensità prodotta con BESSY II, il sincrotrone di terza generazione che si trova all’Helmholtz-Zentrum di Berlino. L’elevata energia dei raggi X è in grado di rimuovere uno degli elettroni dal guscio elettronico più interno dell’atomo di carbonio. Di conseguenza, la molecola si frammenta: sono stati misurati gli atomi di ossigeno, di carbonio e l’elettrone rilasciato. “Ed è qui che entra in gioco la fisica quantistica”, afferma Rist. “L’emissione degli elettroni non avviene simmetricamente in tutte le direzioni”.

Dato che gli elettroni si comportano simultaneamente come particelle e onde, la loro espulsione dalla molecola ha comportato la produzione di onde che sommandosi, danno origine a uno schema di interferenza. Tali modelli di interferenza sono stati analizzati mediante il Cold Target Recoil Ion Momentum Spectrometer (Coltrims), microscopio a quantità di moto: un rilevatore di particelle molto sensibile in grado di registrare reazioni atomiche e molecolari estremamente veloci. “Sulla base di questi effetti di interferenza, che siamo stati in grado di misurare con il microscopio di reazione, la durata del ritardo potrebbe essere determinata indirettamente con una precisione molto elevata, anche se l’intervallo di tempo è incredibilmente breve”, precisa Rist.  La ricerca ha mostrato che il ritardo dipende fortemente dalla direzione e dalla velocità (energia cinetica) in cui l’elettrone lascia la molecola.

In futuro tali esperimenti potrebbero anche aiutare a comprendere meglio la dinamica delle reazioni chimiche”, ipotizza Jahnke. Queste misurazioni e i modelli utilizzati per descrivere il fenomeno osservato sono rilevanti anche per molti processi chimici in cui gli elettroni non sono rilasciati interamente, ma trasferiti alle molecole vicine, innescando ulteriori reazioni. 

T. C. Billard, G. Burns, Time-delayed photoelectric effect, Nature, volume 306, pag 247–248, 1983

P. Hockett, E. Frumker, D. M. Villeneuve, P. B. Corkum, Time delay in molecular photoionization, Journal of Physics B: Atomic, Molecular and Optical Physics, Volume 49, Numero 9, 2016 

Jonas Rist et al., Measuring the photoelectron emission delay in the molecular frame, Nature comunications, Volume 12, Numero 6657, 2021

Immagine in evidenza: crediti Alessandra Volpe