Non sparate su Ernst Boris Chain, biochimico e pianista
«Nerd ante litteram» della biochimica nato in Germania, in Inghilterra divenne uomo di scienza a tutto tondo, perfetta sintesi della tradizione scientifica inglese e della ricerca avanzata tedesca
In un roseto attiguo al giardino botanico dell’università di Oxford, all’ombra di un’aiuola di bosso, un’iscrizione invita ad andare oltre le controversie sulla «paternità» del farmaco della penicillina. Infatti, se le proprietà batteriostatiche dell’omonimo fungo, il Penicillium notatum, furono accertate già nel 1928 dal medico e batteriologo Alexander Fleming del St. Mary’s Hospital di Londra, è invece proprio alla William Dunn School of Pathology di Oxford che va attribuito, più di dieci anni dopo, lo sviluppo del primo antibiotico. A guidare questa avventura, assieme ad Howard Florey e Norman Heatley, fu Ernst Boris Chain.
Cresciuto e formatosi nella Berlino cosmopolita guglielmina e della Repubblica di Weimar, alla morte del padre, senza più le certezze (non solo economiche) di una comoda e ordinata vita medio-borghese, il piccolo Chain si abituò in fretta al continuo via vai di pensionanti nella casa nel quartiere della Charité, senza contare i soggiorni dei familiari di passaggio da San Pietroburgo. Tenne comunque fede alle aspettative dei genitori laureandosi in chimica e fisiologia alla Friedrich Wilhelm Universität e in seguito ottenendo il dottorato al Charité Hospital, con docenti di rilievo come il chimico-fisico Walther Nernst, il fisico Max Planck, il chimico degli elementi pesanti Otto Hahn (tutti premi Nobel) e la collega Lise Meitner.
Nell’aprile del 1933, a pochi mesi dalla nomina a cancelliere di Hitler, Chain fu costretto a emigrare a Londra anche per la parentela con Kurt Eisner, esponente di primo piano del partito socialdemocratico tedesco. In meno di due settimane riuscì però a trovare un’occupazione presso lo University College di Londra, per poi passare, nel corso dei due anni successivi, dall’Istituto di Biochimica dell’Università di Cambridge alla W. Dunn School of Pathology di Oxford. Un «viavai accademico» dovuto anche alle ricorrenti difficoltà relazionali con i colleghi. Garbato e gentile nella vita privata, Chain era infatti irremovibile sul lavoro, tanto da prodursi in memorabili scontri in cui lamentava l’insufficienza o inadeguatezza della dotazione tecnologica dei laboratori inglesi. Infatti, mentre la via tedesca alla ricerca scientifica nasceva da un’alleanza tra il mondo accademico e l’apparato industriale nazionale (privilegiando la ricerca applicata e le sue immediate ricadute), la scienza inglese, prevalentemente accademica e priva di un sistema di enti di ricerca indipendenti come i Kaiser-Wilhelm-Institute, seguiva invece un approccio più tradizionale, concentrandosi sull’analisi diretta e metodica della natura ma senza rincorrere strumentazioni ultramoderne. Perciò, nel clima informale e rilassato delle università britanniche, il biochimico di origini russo-tedesche doveva sembrare un vero e proprio «nerd ante litteram».
In Inghilterra Chain iniziò a definirsi con fare semironico «un continentale capriccioso, di temperamento», e lo era grazie ad un’alchimia unica di storie ed esperienze diversissime: per un verso era il frutto del rigido sistema accademico tedesco, per un altro non era privo di una certa giovialità e simpatia, che attingevano alla tradizione comunitaria ebraica del ramo paterno. Ma i «fantasmi del continente» lo perseguitavano anche sul suolo inglese: era vittima di attacchi di panico e di strani malesseri che lo spingevano a tenere un minuzioso diario giornaliero. Solo nel pianoforte riusciva a trovare conforto; almeno fin quando non incontrò la collega e futura moglie Anne Beloff, madre dei suoi tre figli.
Decisiva per la sua autostima fu l’assegnazione del massimo riconoscimento scientifico internazionale, il premio Nobel condiviso con Fleming e Florey nel 1945. Ciononostante, la cronica mancanza di fondi della ricerca inglese portò Chain a Roma, all’Istituto Superiore di Sanità. Qui presiedette alla progettazione, alla realizzazione e infine alla gestione di un importante centro di ricerca europeo sugli antibiotici, con annessa unità pilota per la produzione di penicillina. Solo nel 1964 tornerà a Londra accettando la cattedra di biochimica del prestigioso Imperial College, istituita con sovvenzioni pubbliche e private (Wolfson Trust), e che ricoprirà fino a pochi anni dalla morte.
Il comportamento di Chain ha spesso sollevato molte riserve, soprattutto nel mondo accademico: dalla richiesta (inascoltata) di brevettare alcune fasi della produzione di penicillina, all’uso disinvolto dei fondi per le proprie ricerche, fino alle illazioni sulla sua integrità professionale nello scandalo del talidomide. Nel processo contro la casa produttrice del farmaco che aveva indotto un altissimo numero di «malformazioni» neonatali, Chain, in qualità di consulente della difesa, negò ostinatamente il nesso tra l’assunzione del medicinale e i suoi «effetti collaterali».
Il biochimico naturalizzato inglese era in realtà l’apripista di una nuova generazione di scienziati non più votati solo alla ricerca, ma costretti a rincorrere i finanziamenti pubblici e privati, bussando alla porta di facoltosi mecenati, e a fronteggiare un’esposizione mediatica sempre crescente. Era insomma il risultato della «secolarizzazione» della figura dello scienziato, in precedenza ritenuto, almeno dall’opinione pubblica, un «santo laico».
Nei convenevoli informali della cena dei Nobel, Alex H.T. Theorell, direttore del dipartimento di biochimica del Nobel Institute, riprese a mo’ di apologo una favola dei fratelli Grimm: ne «Lo spirito della bottiglia» il figlio di un povero taglialegna libera un genio intrappolato in una bottiglia che in cambio gli dona un panno con il potere di guarire tutte le ferite da una parte e di tramutare il ferro in argento dall’altra. Rivolgendosi a Fleming, Florey e a Chain il professore conclude: «Siete diventati i dottori più famosi del mondo; ma – a differenza dello studente – voi non avete usato il lato del panno che trasformava tutto in argento. Così noi diamo seguito alle volontà di Alfred Nobel premiandovi, anziché con l’argento, con l’oro».
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