Grazia Deledda: Cosima, quasi Grazia
La caparbietà di una ragazza di provincia che, nonostante le critiche, non smette di inseguire il sogno di scrivere, arrivando a vincere il Nobel per la letteratura
«Le farò la mia silhouette in due o tre o righe. Ho vent’anni, sono bruna e un tantino… anche brutta, non tanto però come sembro nell’orribile ritratto in prima pagina di Fior di Sardegna (1891). Sono una modestissima signorina di provincia che ha molta volontà e coraggio in arte, ma anche nella sua vita, solitaria e silenziosa, è la più timida ragazza del mondo». Così descrive se stessa Grazia Deledda al direttore del giornale “L’ultima moda”, che aveva pubblicato la sua prima novella, Sangue sardo, nel 1888, quando era ancora una giovane diciassettenne, probabilmente destinata a una vita mediocre. Invece dimostrerà di lì a breve l’arditezza e il coraggio di rivoluzionare il suo destino e seguire il suo sogno: diventare scrittrice. E, come nella lettera a “L’ultima moda”, racconterà tanto di sè anche tramite le protagoniste delle sue opere.
Premio Nobel per la letteratura nel 1926, Grazia Cosima Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre 1871. La Sardegna, selvaggia e ventosa isola protagonista indiscussa delle sue opere, sembra però andarle stretta. Appena può, nel 1900, dopo aver sposato Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, si trasferisce a Roma: «Un tripudio infantile l’assaliva al solo pensiero che Roma s’avvicinava; che Roma, la città meravigliosa, lungamente sognata, la capitale del mondo, nido d’ogni delizia e d’ogni splendore, Roma stava per diventar sua!». Si può immaginare che questi siano stati i pensieri della giovane Deledda, proprio come quelli di Regina, protagonista di Nostalgie, pubblicato nel 1905.
Nella capitale la giovane scrittrice spera infatti di potersi guadagnare da vivere scrivendo, libera dai pregiudizi maschilisti e intellettuali con cui si era scontrata nell’ambiente letterario sardo, in cui era spesso giudicata come rozza e illetterata. Pregiudizi che purtroppo dovrà affrontare durante tutta la sua carriera: perfino le cronache svedesi del 1927, anno in cui ritirò il Nobel, si riferiscono a lei come alla “buona signora”, sminuendo la sua identità di scrittrice, e nemmeno l’attribuzione del premio dissiperà i dubbi di una parte della critica, che ancora oggi la colloca in secondo piano tra gli scrittori del primo Novecento italiano.
Più forte delle critiche ricevute già agli albori della sua carriera, è la volontà di cambiamento e la voglia di scrivere della giovane Grazia, che con caparbietà continua a seguire il suo sogno: «Lavorare, lavorare! Sì, anch’ella voleva lavorare, voleva scrivere, poiché non era buona ad altro, voleva guadagnare. E anzitutto voleva vivere». Anche Nina, eroina de Il paese del vento (1931), ha l’ambizione e il carattere forte della sua creatrice: «Il temperamento ce l’avevo: nata in un paese dove la donna era considerata ancora con criteri orientali, e quindi segregata in casa con l’unica missione di lavorare e procreare». Proprio come lei, la Deledda è un’autodidatta perché la sua famiglia, seppur benestante, non le permette di proseguire gli studi oltre quelli elementari, come si usava all’epoca per le figlie femmine. «Eppure,» proprio come Nina «mi abbandonavo a quello che la mia mamma considerava il più grosso peccato: la continua avida lettura di libri non adatti alla mia età e soprattutto alla mia educazione. Naturalmente leggevo di nascosto, giorno e notte».
Anche se il desiderio di lasciare la Sardegna la porta lontano, resterà sempre legata alla sua terra, come accade a Regina, che non nasconde la commozione di fronte agli incantevoli paesaggi sardi: «I meravigliosi tramonti di Roma scoloriscono, nel mio ricordo, davanti a quest’immenso orizzonte d’un rosso fragola inverosimile, ove galleggiano, come lontane isole lucenti, lunghe nuvole d’oro, dalle quali s’erge un perfetto miraggio di boschi solitari, immobili nello splendore del tramonto». La Sardegna, insomma, diventa nelle opere di Grazia Deledda un luogo mitico, una terra senza tempo.
Il rapporto con l’isola proseguirà anche dopo la sua morte: la Deledda si spegne a Roma (per un tumore al seno, proprio come Maria Concezione, uno dei suoi personaggi) il 15 agosto 1936, ma le sue spoglie riposano nella chiesetta della Madonna della Solitudine, vicino Nuoro, la stessa descritta in La chiesa nuova (1933) e La chiesa della solitudine (1936). Maria Concezione, protagonista proprio di quest’ultimo romanzo, può essere considerata una sorta di esorcismo della Deledda contro il male che l’ha colpita. Anche in La chiesa nuova la scrittrice dà sfogo alla sua angoscia, forse presagendo la fine: «La chiesa è quella, il bosco è quello. È la chiesetta antichissima, in cima al Monte Orthobene, sopra la cascata dei lecci, nell’ora quando il cielo si sprofonda fino a Dio e dal mondo salgono le nuvole rosse che hanno assorbito e disperdono le passioni degli uomini. Sono ancora fanciulla: la vita è dentro il mio pugno, come una manciata di gemme; ma io la depongo ai tuoi piedi, Signora del Monte».
Grazia Deledda morirà prima di aver terminato la stesura della sua ultima opera, Cosima, quasi Grazia. Si tratta di un’autobiografia che verrà pubblicata postuma nel 1937, in cui, ancora una volta, la scrittrice si apre al lettore, raccontandosi in terza persona usando il suo secondo nome: dalla vita vissuta, alla finzione autobiografica; dai sentimenti veramente provati, a quelli realmente immaginati, a quelli inventati. Proprio in quest’opera compare il commento della Deledda alla lettera che da ragazza, piena di speranze, aveva spedito al redattore de “L’ultima moda”: «E dunque alla nostra Cosima salta nella testa chiusa ma ardita di mandare una novella al giornale di moda, con una letterina piena di graziose esibizioni, come, per esempio, la sommaria dipintura della sua vita, del suo ambiente, delle sue aspirazioni, e soprattutto con forti e prodi promesse per il suo avvenire letterario». La Deledda allora non poteva ancora saperlo, ma sarebbe stata la seconda donna al mondo e unica italiana a ricevere il premio Nobel per la letteratura, trasformando in realtà il suo sogno più grande.
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