Il mestiere più antico
Cosa è uno zoologo? La storia del mestiere più antico del mondo raccontata da Marco Oliverio Direttore del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza
Nella Genesi, il Signore Dio “dopo aver plasmato ogni sorta di bestie selvatiche”, incarica Adamo di dare un nome alle creature viventi. Ovvero assegna ad Adamo il “mestiere” di Tassonomo della Biodiversità, quindi il mestiere più antico del Mondo. Si stima che in 260 anni di catalogazione scientifica degli organismi viventi, iniziata nel 1758, sia stato fatto solo un quinto del lavoro complessivo e che ci vorrebbero 1200 anni per terminare l’opera. Marco Oliverio ci spiega, l’importanza di questo “mestiere”, come farlo e dove indirizzare gli sforzi per comprendere a fondo questo mondo “biodiverso”.
La pioggia sottile intride tutto nella foresta delle Eastern Highlands della Nuova Guinea in quel 1965, anche il taccuino su cui il giovane naturalista americano sta prendendo gli ultimi appunti. Partecipa ad una spedizione organizzata dall’American Museum of Natural History per raccogliere dati ed esemplari per il museo. Il giovane si occupa di ornitologia, e ormai non è più sorpreso dalla straordinaria abilità del suo accompagnatore nell’identificare gli uccelli anche solo dal loro canto; l’accompagnatore è del villaggio di Awande, fa parte del popolo Fore. Come spesso avviene coi popoli di queste parti, i Fore dimostrano una straordinaria conoscenza della natura e praticano con sapienza l’arte di catalogare gli organismi viventi, assegnando loro un nome, in sostanza la Tassonomia biologica. Il livello di sovrapposizione della loro tassonomia degli uccelli con quella degli specialisti occidentali (ad esempio quella adottata dal famoso Ernest Mayr, nel suo “List of New Guinea Birds” del 1941) è sorprendente. Il giovane naturalista è Jared Diamond, poi premio Pulitzer per la saggistica con “Armi, acciaio e malattie” del 1997, che scriverà un articolo sulla rivista Science nel 1966 sulla tassonomia ornitologica dei Fore.
Le osservazioni di Diamond in Nuova Guinea suggeriscono il tema della “naturalità emergente” delle specie biologiche, che vengono individuate ed inventariate sostanzialmente allo stesso modo da tutte le culture del pianeta. Sono realtà della natura che l’uomo percepisce come tali, gli attribuisce un nome, le cataloga: opera cioè l’inventario della biodiversità, ovvero della moltitudine di forme di vita sul pianeta. Lo fa praticamente ovunque; lo fa da molto tempo, forse da sempre, da quando almeno ha cominciato ad utilizzare un linguaggio, e ad associare fonemi a oggetti della realtà circostante. È così che viene alla luce il fatto che quello del tassonomo naturalistico, l’artefice dell’inventario della biodiversità, è il vero mestiere più antico del mondo. […cosa credevate? L’idea che il mestiere più antico del mondo sia quello della meretrice è null’altro che aneddotica, e piuttosto recente, risalendo ad una novella di Rudyard Kipling (“On the City Wall”, 1889) su Lalun, giovane prostituta indiana, della quale Kipling dice: “Lalun is a member of the most ancient profession in the world”.] Altro che il pastore, il carpentiere o l’agricoltore. A voler dare credito alla cronologia illustrata nelle pagine della Genesi:
“Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello sarebbe stato il suo nome. Così l’uomo impose un nome a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche.” (Genesi 2: 19, 20)
Qui il Signore Dio incarica Adamo di dare un nome alle creature viventi, ovvero di fare il Tassonomo della Biodiversità. È, a pensarci bene, l’unico mestiere e, il più antico, che si racconta sia stato assegnato esplicitamente dal Creatore all’uomo nel giardino dell’Eden, prima della cacciata e della maledizione del lavoro. E non è solo il Cristianesimo a dirci che la Tassonomia inizi così presto nella storia umana. Circa vent’anni dopo che Diamond ebbe raccontato delle sue esperienze coi nativi tassonomi della Nuova Guinea, Bruce Chatwin (1987, “Songlines”) raccontava al mondo il mito aborigeno australiano della creazione: narra, Chatwin, di Barnumbirr (da alcuni identificato con Venere, la Stella del Mattino), il leggendario essere totemico, lo spirito-creatore che, volteggiando sopra il continente nel Tempo dei Sogni, cantava il nome di ogni cosa – animali, piante, rocce, pozze d’acqua – e così, cantandone il nome le cose della natura venivano all’esistenza. Tralasciando i secoli e millenni di tassonomie svolte dall’uomo in tutto il pianeta, l’opera moderna di inventario della Biodiversità, ovvero la Tassonomia moderna, il più possibile coordinata alla scala globale, si fa iniziare per convenzione con la decima edizione del “Systema Naturae” di Carl Nilsson Linnaeus, datata, sempre per convenzione, 1° gennaio 1758. Da allora, gli specialisti dei vari gruppi di organismi viventi (animali, piante, funghi, batteri, etc.) hanno catalogato forse due milioni di specie. Possono sembrare tante, o poche, con una distribuzione sul pianeta non omogenea. In Italia, che è un paese ricco in biodiversità, ad esempio, sono censite circa sessantamila specie di animali e ottomila specie di piante. Il problema è che ogni anno, ogni mese, ogni giorno, vengono scoperte, descritte e catalogate nuove specie in tutti i gruppi di organismi: si tratta di scoperte residuali, che lasciano il numero totale come un riferimento plausibile della realtà esistente? O siamo ancora lontani dalla meta? Terry L. Erwin, specialista di coleotteri – il più grande gruppo di insetti, e gli insetti sono il maggiore gruppo di animali – al National Museum of Natural History di Washington, nel 1987 provò a stimare il numero reale di specie esistenti, estrapolandolo dai suoi dati approfonditi sulle foreste di Panama, e trovò un numero che lasciò sbigottito il mondo dei naturalisti: trenta milioni di specie! Altri specialisti di insetti, come Nigel E. Stork (Natural History Museum di Londra) o Vojtech Novotny (Czech Academy of Sciences di Ceske Budejovice), provarono altre elaborazioni, stimando numeri inferiori ma sempre molto alti: da quattro a sette milioni di insetti, corrispondenti a una decina di milioni di specie di organismi viventi. Infine, più recentemente, con la disponibilità e copertura di dati a scala globale offerta da internet, Carlos Mora e colleghi (2012) hanno prodotto una stima molto accurata di poco meno di nove milioni di specie esistenti (8,7 milioni per l’esattezza) di cui 2,2 milioni negli oceani. Se le stime di Mora e colleghi sono esatte – e se non lo fossero, sarebbe per difetto – abbiamo svolto un quinto del lavoro in oltre 260 anni di Tassonomia moderna, e forse abbiamo intercettato la parte più evidente, più facile da affrontare, nelle aree geografiche e negli habitat più accessibili. Mora e colleghi hanno anche provato a stimare che per terminare il lavoro di inventario mantenendo la velocità attuale, ci vorrebbero altri 1.200 anni, con oltre 300 mila tassonomi impiegati a tempo pieno, e un costo puramente ipotetico di oltre 360 miliardi di dollari…
Sulle necessità di persone e denari c’è poco da fare, ma per il fattore tempo forse si può intervenire, e in realtà si deve – nei prossimi 1.200 anni una parte importante delle specie si estinguerà prima ancora di essere scoperta –. Serve da una parte un impegno concreto (risorse, infrastrutture) istituzionale, nazionale e internazionale, e dall’altra un cambio di passo che faccia pieno uso delle metodologie più moderne e permetta di accelerare un’opera di conoscenza di base imprescindibile. Esistono oggi metodologie che permettono di incidere sul fattore tempo, integrando nella catalogazione delle specie gli approcci più tradizionali (lo specialista che descrive la morfologia, la biologia e l’ecologia della specie che ha scoperto) con i dati da tecnologie moderne (dal sequenziamento di singoli geni fino alla caratterizzazione dell’intero genoma). Si può cioè pensare di utilizzare la sequenza del DNA di un organismo, dapprima come strumento per aiutare lo specialista nella decisione se ci si trovi dinanzi ad una specie nota o ad una nuova, accelerando spesso di molto tale processo decisionale, e quindi l’inventario delle nuove specie; poi la sequenza di specifiche porzioni del genoma possono essere utilizzate come un codice a barre di riconoscimento, velocizzando altrettanto, se non di più, i processi di identificazione delle specie. È il cosiddetto approccio del DNA-barcoding, che sta rivoluzionando il lavoro di inventario della biodiversità sia nella parte esplorativa di scoperta delle novità, sia in quella più routinaria di monitoraggio degli habitat.
I punti di riferimento per questi processi, nei grandi Paesi del pianeta, sono i Musei Nazionali di Storia Naturale. In Italia, paese giovane nella sua unitarietà attuale, ma con una tradizione secolare fortissima nel tema della Tassonomia, abbiamo una miriade di musei naturalistici (oltre 400) regionali, provinciali, municipali ed universitari, con collezioni spesso importantissime, veri scrigni di Biodiversità, ma manchiamo da sempre di un riferimento unico alla scala nazionale. In un tempo come questo, di grandi investimenti, in cui le tematiche cosiddette “green” possono guidare in maniera importante i processi decisionali, è giunto il momento di pensare seriamente ad un Museo Nazionale dedicato al tema della Biodiversità, che promuova la ricerca più innovativa nel settore, che dia nuova forza, una forza di modernità e tradizione al contempo, al mestiere più antico del mondo.
Marco Oliverio, Zoologo e Direttore del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma
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