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L’immunoterapia è per pochi: un algoritmo dice su chi funziona

Un gruppo di ricercatori italiani ha realizzato un algoritmo pratico e veloce per selezionare i pazienti potenzialmente responsivi all’immunoterapia contro il cancro: le variabili prese in esame sono di uso comune e facilmente reperibili

Due pazienti, stesso tipo di cancro e stessa terapia di ultima generazione, che stimola il sistema immunitario contro le cellule tumorali. Ma ne beneficerà soltanto uno o più probabilmente nessuno dei due. L’immunoterapia contro il cancro, che ha meritato il Nobel per la Medicina nel 2018, è per pochi: in media, solo il 20-30% dei pazienti risponde al trattamento. È giusto sottoporre il restante 70-80% a una terapia quasi sicuramente inefficace e che avrà comunque degli effetti collaterali? Un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale dei Tumori (Int) di Milano non ci sta: ha messo a punto un sistema pratico e veloce per selezionare in anticipo i pazienti potenzialmente responsivi. È un algoritmo che integra una serie di dati facilmente reperibili dalla cartella clinica e da una banale analisi del sangue. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Cancers.

Una terapia per pochi

L’immunoterapia ha restituito la speranza a pazienti che non sarebbero mai potuti guarire e nemmeno sopravvivere con le terapie tradizionali. I farmaci immunoterapici non agiscono direttamente sulle cellule tumorali, ma stimolano una reazione da parte del sistema immunitario; in questo modo, scatenano contro il tumore i linfociti, gli stessi globuli bianchi che ci difendono anche da batteri e virus. Ma è ancora presto per esultare: solo una piccola percentuale risponde al trattamento con benefici nel lungo termine. A fronte di questa enorme variabilità, non esiste ancora un metodo di analisi “universale” che stabilisca a chi somministrare il trattamento. Un problema non da poco, poiché, come tutti i farmaci, anche le immunoterapie hanno effetti collaterali, in questo caso legati a una iper-attivazione del sistema immunitario contro i tessuti sani.

L’enzima LDH

Se da un lato si cerca di estendere il bacino dei potenziali beneficiari, dall’altro si vorrebbe sapere in anticipo se un paziente risponderà o meno al trattamento. Su questo fronte si sono mossi i ricercatori dell’Int, guidati dal medico Massimo di Nicola. “L’idea che ha guidato questo studio è quella di poter disporre di criteri semplici, basati su variabili di uso comune e facilmente reperibili, che possano aiutare il medico a selezionare al meglio i pazienti potenzialmente responsivi”, spiega.

La variabile esaminata dal suo team è un enzima di nome lattato deidrogenasi (LDH), associato al metabolismo cellulare e alla produzione di energia. Risponde perfettamente alle esigenze, poiché la sua misurazione nel sangue è semplice ed economica. E infatti vene già usato come marcatore di cattiva prognosi per una varietà di tumori; un aumento della sua concentrazione nel sangue indica una maggiore attività metabolica delle cellule tumorali: bruciano più energia e quindi proliferano più in fretta.

Selezionare i pazienti

Ma l’aumento di questo enzima sembra correlare anche con una minore risposta all’immunoterapia. E si capisce anche il perché: le cellule tumorali “ruberebbero” energia ai globuli bianchi nelle vicinanze, rendendoli particolarmente “spompati” e inefficaci. La correlazione è ancora più forte se associata all’età del paziente e al suo performance status (che misura la necessità di assistenza per le attività quotidiane). I ricercatori hanno realizzato un algoritmo che incrocia queste tre informazioni e calcola la probabilità di risposta al trattamento.

La ricerca, di tipo retrospettivo, ha messo insieme i dati di 271 pazienti trattati tra il 2013 e il 2017, ottenendo risultati promettenti; andranno però confermati in uno studio prospettico, su un campione più esteso e omogeneo. L’obiettivo è rendere la medicina sempre più personalizzata, per ridurre i trattamenti inefficaci e gli inutili effetti collaterali.