Infodemia da covid-19: quando il troppo stroppia
Sapienza Università di Roma ha ospitato Infodemia da covid-19: cronache di un’emergenza mediatica, il primo di una serie di incontri tra esperti del settore scientifico-sanitario e giornalisti per confrontarsi sugli errori commessi nella diffusione di informazioni durante la pandemia
Seduti al bar a prendere il caffè, non importa l’età o il mestiere, l’argomento che domina la conversazione è certamente uno. Il Covid. Da marzo 2020 a oggi, in mille salse, in mille media, si legge e si parla quasi solo del virus che ha provocato la pandemia; o meglio le pandemie. Perché oltre all’emergenza sanitaria, il Sars-cov-2 ha scatenato un’altra crisi, quella mediatica. Un flusso costante e incontrollato di informazioni discordanti che ha travolto le nostre giornate, portandoci a chiedere sempre cosa è vero e cosa no.
“Infodemia” – l’hanno definita gli esperti – ovvero la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni che rende difficile orientarsi su un determinato argomento perché difficile individuarne fonti affidabili. Infodemia: una seconda pandemia, meno letale ma altrettanto pericolosa. Ma da cosa deriva? Il mare di notizie e opinioni, confuse e contradittorie, che ha dilagato è la diretta conseguenza dell’estrema situazione in cui ci siamo trovati o la comunicazione poteva essere gestita meglio?
Il 16 giugno, Sapienza Università di Roma ha ospitato Infodemia da covid-19: cronache di un’emergenza mediatica, un primo dibattito tra esperti del settore scientifico-sanitario e giornalisti per discutere dell’informazione scientifica in Italia e confrontarsi su cosa è andato storto nella diffusione delle notizie riguardo il covid-19. Lo scopo dell’incontro era quello di costruire una tavola rotonda, dove i partecipanti sedessero insieme, senza puntare il dito, per confrontarsi, analizzare errori e cercare soluzioni. Ecco un “assaggio” delle tematiche affrontate.
La prima considerazione è stata unanime: si poteva fare meglio. E la colpa, di questo “meglio” mancato, è attribuibile soprattutto a due categorie: gli esperti, scienziati e medici, fonti della marea di notizie sotto accusa, e i giornalisti che le hanno divulgate. Numerose le criticità emerse da entrambe le parti; punto saldo e condiviso è la questione dei pre-print, articoli scientifici non ancora valutati e accettati da una commissione di pari. Ogni volta che un laboratorio scopre qualcosa e ne scrive al riguardo, i risultati devono essere sottoposti al vaglio di un gruppo anonimo di altri scienziati che decidono se la scoperta è valida o meno. Questa valutazione imparziale è fondamentale per evitare che studi mal condotti, o risultati dedotti erroneamente, vengano resi noti. Tuttavia, esistono degli archivi digitali online che permettono la pubblicazione degli articoli ancora in fase di valutazione. All’inizio della pandemia, i laboratori sono stati spinti a rendere disponibili i propri dati il prima possibile, nella speranza che tale condivisione accelerasse la scoperta di soluzioni all’emergenza sanitaria. Questo ha generato però la circolazione di informazioni non accurate, di risultati scorretti o non contestualizzati, che spesso sono stati ritrattati. Le notizie contraddittorie divulgate dai media derivavano, a volte, dall’uso di pre-print come fonte attendibile, senza dare il tempo ai meccanismi della scienza di verificare e, in caso, smentire.
La scienza infatti è una disciplina rigorosa ma ha i suoi tempi, che non sempre combaciano con le nostre esigenze. Procede a piccoli passi, dato dopo dato, evidenza su evidenza, secondo il rigido metodo scientifico che vuole osservazioni, ipotesi e verifiche. Solo così la scienza è in grado di progredire veramente e, se necessario, di autocorreggersi.
Ma la gente era spaventata e voleva risposte rapide e definitive. Ecco, dunque, una fonte del problema: di definitivo, nella scienza, non c’è nulla, soprattutto quando si cerca di capire un nemico sconosciuto. La scienza si basa sul dubbio; nell’incertezza si manifesta la sua salute, una scienza certa è malata, è sterile. Difficile da capire, ancor più da accettare, se all’incertezza non siamo abituati, se di dubbio e metodo scientifico non ce ne hanno molto parlato, neanche a scuola.
Così, in nome dell’informazione, gli scienziati sono stati portati a discutere in prima serata di un tema in continua evoluzione, a volte però dichiarando l’incerto per certo solo perché spinti da interessi politici o economici. Peccato che si sono rivolti ad un pubblico che non aveva gli strumenti per rifiutare l’assolutezza di quelle affermazioni. E i giornalisti hanno fatto la loro parte, andando alla ricerca del titolo sensazionale o dell’“eretico” controcorrente. C’è un mea culpa condiviso: essersi piegati al principio di autorità, ovvero aver dato troppo risalto alle dichiarazioni di chi veniva definito “esperto”, non sempre scelto con la dovuta attenzione. La fiducia, invece, andava riposta altrove: nei dati, nei fatti, nel metodo scientifico.
Un’attenuante, tuttavia, va considerata: nel tango della domanda-offerta, giornalisti e scienziati hanno dovuto rispondere a una pressante richiesta di informazioni per tranquillizzare una popolazione sgomenta. Ma alla fine della storia, questa furia di notizie ci ha davvero resi più tranquilli?
Credit immagine in evidenza: {Elisabetta Rossi}
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