Instabilità abitativa e droga sono il terreno fertile per la diffusione di Epatite C e HIV
Un articolo pubblicato su The Lancet presenta la prima indagine sistematica che quantifica l’associazione fra instabilità abitativa, uso di droghe e rischio di contrarre Epatite C e Hiv.
Se è vero che la diffusione di alcuni virus può essere tenuta sotto controllo anche senza una campagna vaccinale – è il caso di virus altamente mutabili come l’Epatite C (Hcv), ad esempio, per cui sintetizzare un vaccino richiede tecniche e tecnologie non ancora sviluppate –, è altrettanto vero che in alcuni ambienti e situazioni questi sembrano inarrestabili. È proprio su questo aspetto che si concentra un’indagine pubblicata su The Lancet il 26 marzo 2021: secondo le statistiche raccolte in 16 paesi e afferenti agli anni 1986-2020 è fra le persone povere che fanno uso di droga – i senzatetto in particolare – che imperversa la diffusione di Hcv e Hiv.
Dopo il Nobel nel 2019 a Ester Duflo per il suo approccio scientifico e analitico alla lotta contro la povertà e, nel 2020, agli scopritori del virus dell’Hcv, questo studio unisce le due tematiche nel filo comune della salute pubblica e sociale. Si tratta della raccolta dati più ampia e completa sul tema.
Mentre le annate 1986-2017 erano state già coperte da statistiche analoghe, gli studi nel periodo 2017-2020 sono stati oggetto di una ricerca d’archivio sui principali database di riferimento (PubMed, Medline, Embase e PsycInfo). Gli autori hanno anche contattato direttamente i titolari di alcune indagini non ancora pubblicate – 21, per la precisione – affinché fossero completate e incluse nelle statistiche, triplicando i dati disponibili. Il campione finale conta 37 studi condotti in 16 paesi di Nord America, Europa, Australia, Africa orientale e Asia, per un totale di 70 stime (22 pubblicate e 48 non pubblicate). Tra i partecipanti, 29314 rientrano negli studi sull’Hiv e 21842 in quelli sull’Hcv.
I risultati: fra i tossicodipendenti, la mancanza di fissa dimora – o l’instabilità abitativa recente – è stata associata a un rischio 1.55 volte maggiore di contrarre l’Hiv e 1.65 volte maggiore di contrarre l’Hcv. Per quest’ultimo, inoltre, l’incidenza è risultata più alta in Europa che altrove.
Ma veniamo alle ragioni sociali. Innanzitutto, una questione di priorità: le persone senza fissa dimora spesso lottano per assicurarsi e mantenere un alloggio, il che limita la loro capacità di dare priorità alla salute e di appoggiarsi ai servizi sanitari e di assistenza sociale. Rispetto ai tossicodipendenti che vivono in un alloggio stabile, inoltre, i senzatetto hanno maggiori probabilità di attuare comportamenti ad alto rischio associati alla trasmissione di Hiv e Hcv, come il lavoro sessuale, l’iniezione in pubblico e la condivisione di attrezzature per l’iniezione. A ciò si aggiunge lo stigma associato alla condizione sociale, che amplifica la probabilità di esiti negativi per la salute. Alcuni studi a carattere psicologico sui tossicodipendenti senza fissa dimora, infatti, riportano che lo stress per la precarietà delle circostanze di vita e la pervasività delle droghe nell’ambiente sociale aumenta notevolmente l’uso delle stesse e i comportamenti ad alto rischio.
Il take home message – è proprio il caso di dirlo – è la necessità di incrementare e potenziare gli interventi abitativi come metodo primario per ridurre il rischio di contrazione di Hiv e Hcv fra i tossicodipendenti senzatetto.
È stato dimostrato come iniziative di questo tipo – il modello Housing First, fra tutti – accompagnate da un supporto psicologico per i disturbi di salute mentale e l’uso di sostanze, abbiano avuto un impatto positivo non solo su queste problematiche, ma anche sull’integrazione sociale, sulla stabilità abitativa, sul coinvolgimento penale e sulla qualità della vita in generale. Nonostante modelli come questo siano ancora poco diffusi, durante l’attuale pandemia numerosi paesi (tra cui Regno Unito, Francia, Australia e Usa) hanno intensificato gli sforzi per fornire un alloggio temporaneo alle persone senza fissa dimora. In Inghilterra questo non solo ha ridotto i focolai di Covid-19, ma ha anche aumentato la possibilità di effettuare test diagnostici e curare patologie come tubercolosi, Hiv e Hcv.
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