Istituto Superiore di Sanità
di Marco Crescenzi
Marco Crescenzi, Direttore del Servizio grandi strumentazioni e core facilities dell’Istituto Superiore di Sanità e ricercatore presso lo stesso Istituto ci racconta la strada che lo ha portato all’ISS, della sua importante ricerca sulle cellule terminalmente differenziate e della passione per l’insegnamento.
Sono approdato all’Istituto Superiore di Sanità, per brevità ISS, nel 1997. Avevo una storia articolata alle spalle: prima al Policlinico Umberto I, per tre anni dopo la laurea in medicina, poi due postdoc negli USA. Il primo a St. Louis, dove ho rinunciato per sempre alla mia grande passione per la clinica, per dedicarmi interamente alla ricerca. Il secondo ai National Institutes of Health di Bethesda, dove ho iniziato – dovrei dire scelto? Si scelgono davvero i percorsi di ricerca? – il filone che avrebbe segnato gran parte della mia carriera scientifica. Tornato a Roma, ancora a Sapienza, sono entrato nel laboratorio di Franco Tatò, un bravissimo scienziato scomparso troppo presto, e poi all’Istituto Tumori Regina Elena. È stato Franco a indirizzarmi all’ISS, dove ho trovato una collocazione definitiva, non precaria, all’età di 39 anni.
Volevo dare il mio contributo al mondo, almeno al pezzetto che mi circondava, e ancora lo voglio. Ogni volta che ingaggiavo una delle mie battaglie contro i mulini a vento, mi sentivo chiedere: “Lei è nuovo dell’Istituto, vero?”.
All’ISS ho sviluppato appieno la mia più importante linea di ricerca: cercare di capire come e perché molte delle nostre cellule, dette terminalmente differenziate, cessano di proliferare in modo permanente quando acquisiscono caratteristiche specializzate. A tutt’oggi conosciamo solo in parte i meccanismi molecolari che determinano le caratteristiche di queste cellule, che non sono in grado di duplicarsi e che, quando forzate a farlo, sono incapaci di replicare completamente il loro DNA e vanno incontro a morte. Cellule che, quando sono spinte a proliferare, perdono le loro caratteristiche specializzate, indicando che il ciclo replicativo e i vari programmi differenziativi sono legati fra loro. Il differenziamento terminale è un enigma biologico ancora in larga parte oscuro, la cui soluzione getterebbe luce anche su molti altri problemi biologici. Fra questi la rigenerazione, cioè la capacità di ricostruire parti mancanti del corpo, che è così scarsa nei mammiferi. O la tumorigenesi: molti pensano che il differenziamento terminale, producendo cellule che non proliferano, sia una salvaguardia contro i tumori, ma la realtà biologica è più complessa di così. E ancora l’invecchiamento, uno degli ultimi grandi misteri della biologia: sappiamo che le nostre cellule invecchiano e così il nostro organismo, ma le cellule delle specie capaci di rigenerazione ringiovaniscono proprio mentre ricostituiscono tessuti e organi perduti. E poi, di grande importanza, le possibilità applicative. Se potessimo indurre cellule terminalmente differenziate come neuroni e cellule cardiache a proliferare in modo controllato, sicuro e reversibile, le ricadute sulla cosiddetta medicina rigenerativa sarebbero immense.
All’ISS il mio gruppo ha prodotto importanti contributi su questi temi. Per esempio, abbiamo scoperto vie diverse e complementari per riattivare il ciclo replicativo nelle cellule terminalmente differenziate. E abbiamo capito che per loro cessare di proliferare è una scelta attiva e continuamente rinnovata, non un semplice spegnere il motore. Il mio solo, grande rimpianto è che avrei voluto fare di più.
Inizialmente abbiamo trovato un ambiente in cui l’indagine scientifica poteva svolgersi liberamente, guidata solo dalla curiosità dei ricercatori. Poi le cose sono cominciate a cambiare. Si è fatta strada – troppa, ma certo non solo in ISS – la pretesa che la ricerca sia mirata a soddisfare rapidamente bisogni medici e sociali. Si tratta della cosiddetta ricerca applicata o, con dubbia derivazione dall’inglese, “traslazionale”. Parallelamente si sono inariditi i fondi per la ricerca “di base”, o accademica, il cui obiettivo primario è la conoscenza. Oggi trovare finanziamenti per la ricerca “pura” è estremamente difficile e questo ostacola e rallenta gravemente i nostri sforzi.
L’ISS però mi ha concesso la libertà di scoprire e sviluppare la mia vocazione per l’insegnamento. Per parecchi anni ho tenuto lezioni su invito, su molti argomenti, fra cui i tumori, la genetica, la virologia, le malattie infettive e la medicina rigenerativa. Nel 2006, inaspettatamente, l’università di Tor Vergata mi ha proposto di insegnare Oncologia. Ho tenuto il corso per cinque anni, con un successo straordinario e da me del tutto imprevisto. Ma poi, con grande rammarico, ho dovuto interromperlo nel 2011, quando le conseguenze della crisi economica del 2008 minacciavano di far affondare il laboratorio: era necessario che dedicassi ogni energia al salvataggio del mio gruppo di ricerca. Recuperata la situazione, sono tornato a Tor Vergata, e poco dopo anche a Sapienza, per insegnare Metodologia della ricerca scientifica. Un modo per trasmettere alla prossima generazione ciò che ho imparato in una vita di scienza e per aiutare i giovani a entrare più preparati nel mondo della ricerca.
Nel 2016 ho intrapreso una nuova attività. Ho contribuito alla nascita del Servizio grandi strumentazioni e core facilities dell’ISS, che ha centralizzato e reso disponibili ed efficienti gli strumenti di ricerca più costosi. Subito dopo mi è stata conferita la direzione del Servizio. È cominciato così un periodo di lavoro ininterrotto incredibilmente intenso, che non accenna a diminuire. Con un folto gruppo di magnifici collaboratori, abbiamo colmato l’arretrato tecnologico che l’ISS aveva accumulato, rinnovando tutta la strumentazione. Abbiamo messo a disposizione di tutti i colleghi apparecchi un tempo sottoutilizzati e abbiamo razionalizzato e reso efficiente la gestione delle grandi strumentazioni. Crediamo che questo abbia contribuito a rilanciare la competitività della ricerca dell’ISS.
Fino a qualche tempo fa mi capitava, la mattina, di svegliarmi turbato pensando: “ho rinunciato ai miei ultimi nove anni da ricercatore”. Era un pensiero doloroso, ma non del tutto vero: mi sforzo costantemente di continuare a fare ricerca, nonostante i miei impegni. Però ora quel pensiero non si presenta più. In qualche modo ho accettato anche questo mio ultimo ruolo, che mi accompagnerà fino alla pensione.
È stata una bella carriera e una grande, lunga avventura intellettuale.
Marco Crescenzi, medico e Direttore del Servizio grandi strumentazioni e core facilities dell’Istituto Superiore di Sanità
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