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Italia VS Camerun

Andi Nganso, medico italiano di origine camerunense, ci racconta del suo impegno per la difesa della diversità. In particolare, del festival DiverCity, un progetto creato per diffondere la cultura dell’inclusione. Impegnato da sempre contro le discriminazioni, lavora per garantire il diritto alla salute a tutte le persone

Chi è in Andi Nganso?

Non è facile raccontarsi soprattutto per chi, come me, ha una storia d’immigrazione. Sono nato e cresciuto in Camerun dove ho fatto tutte le scuole fino alla maturità. Sono l’ultimo figlio di una famiglia numerosa, sparsa tra il Camerun, l’Italia, la Germania, la Francia e il Belgio. Mi sono spostato in Italia per ragioni di studio. Oggi, sono medico e mi occupo di medicina di emergenza con una grande passione per la medicina sociale e umanitaria e anche per il management sanitario. Oltre a questo, sono un imprenditore culturale. Ho fondato qualche anno fa DiverCity, un festival che si occupa di divulgazione della cultura e dell’inclusione e della lotta antirazzista, anticolonialista e contro le discriminazioni in generale. Abbiamo da qualche anno una piattaforma che si occupa tra le altre cose, di design inclusivo per permettere l’accesso ad artisti designer indipendenti a spazi espositivi. Recentemente, ho iniziato ad occuparmi anche di ristorazione sul litorale del Veneto. 

Perché hai scelto il Nord Italia, e in particolare Varese?

Per via di una serie di casualità più che per scelta. Quando stavo per trasferirmi in Italia alcuni amici di famiglia mi hanno consigliato Parma, che infatti è stata la prima città dove ho vissuto e dove ho iniziato i miei studi in Economia e Gestione delle aziende. Quando ho avviato il percorso di studio in Medicina mi sono trasferito all’Università di Varese che è diventata la città che più mi rappresenta e che sento come casa.  Anche se il Nord è dove ho più affetti, sono sempre in movimento e ho girato moltissimo l’Italia: durante questi 18 anni in questo Paese, ho avuto la residenza in quattro Regioni e il domicilio in otto. 

Dall’evento di discriminazione che hai subito nel pronto soccorso di Lignano Sabbiadoro è cambiato qualcosa in tema di razzismo in Italia? 

Gli episodi di discriminazione sono nella quotidianità di chi non viene percepito nello spazio pubblico come appartenente alla comunità nazionale. Questo accade, purtroppo, tutti i giorni. Dalla mia esperienza posso dire che il razzismo esiste ed è un fenomeno diffuso in tutta Italia e i casi di cronaca sono solo la punta dell’iceberg di una situazione che vivono tanti cittadini. Il personale sanitario, nell’esercizio della sua professione, lo vive perché spesso si trovano pazienti poco inclusivi, però lo vive anche nelle relazioni tra colleghi. Ho iniziato a sperimentare il razzismo sui banchi dell’università, quando non ero ancora medico, anche con i professori. L’episodio che ho vissuto non credo abbia cambiato le cose perché sono episodi singolari che se non accolti e studiati da chi ha il dovere di governarci non portano a cambiamenti a livello sociale e culturale. Quindi non credo che le cose siano migliorate, anzi molto probabilmente sono peggiorate.

C’è un episodio particolarmente significativo che ti ha colpito sul tema dell’inclusione nel tuo lavoro in ambito di medicina di emergenza e di medicina sociale e umanitaria, ad esempio con l’esperienza con Croce Rossa o a Lampedusa? 

Spesso, quando si pensa alla medicina sociale e umanitaria, questa viene associata allo straniero. In realtà, il principale soggetto a cui è rivolta è la persona che vive in grave situazione di povertà. Questo in Italia, in modo molto drammatico, non riguarda solamente le persone straniere, anzi, è proprio un problema che abbraccia l’Italia da Nord a Sud. Ci sono persone che hanno delle difficoltà a permettersi di comprarsi le medicine e la privatizzazione dei servizi sanitari incrementa questa problematica. Un’attività che mi ha personalmente toccato è stata quando durante la pandemia con Croce Rossa Italiana, Caritas e altre associazioni territoriali, abbiamo facilitato l’apertura di un centro per permettere l’accesso alle strutture sanitarie e alle strutture di accoglienza alle persone senza fissa dimora, perché le strutture standard di accoglienza avevano chiuso. È stato importante come esperienza professionale vedere come si collabora tra diverse professioni per creare dei servizi sanitari per le persone che sono tagliate fuori dai sistemi di assistenza. La salute deve essere garantita a tutti, a prescindere dalle condizioni sociali, economiche o identitarie. Per quanto riguarda Lampedusa, è il luogo da dove nasce tutta la mia passione. È una terra di sofferenza, ma anche il punto di partenza della vita di tante persone. 

Quindi non si deve agire soltanto sulla medicina prettamente emergenziale, ma bisogna agire a tutto tondo dalla politica alla salute ambientale, ovvero in un’ottica One-Health. Ti ritrovi in questo concetto? 

Assolutamente. La definizione di salute include lo stato di benessere psicofisico, sociale e ambientale. È tutto collegato. Una società come la nostra che si vuole avanzata ha l’obbligo di considerare i tre aspetti.

Si può parlare di un’unica Africa? 

No. L’Africa è chiaramente un contenitore di tantissima diversità. I paesi africani non andrebbero paragonati perché hanno culture diverse che vanno capite nella loro particolarità: è impossibile comparare cose che non c’entrano niente tra di loro. La falsa narrazione intorno all’unicità del popolo africano ha creato una serie di pregiudizi che oggi sono da smontare.

Qual è la differenza fra l’Africa vista dall’Italia e quella vissuta?

L’Ottocento e il Novecento sono i secoli dell’imperialismo e della colonizzazione a cui sono seguite guerre tra le stesse potenze per spartirsi i territori e poi le lotte per la liberazione e altre fasi che hanno portato squilibri a livello internazionale e geopolitico. Questo ha portato una narrazione che ha alimentato l’inferiorizzazione dei popoli africani, ma che non rispecchia la realtà. 

Ci puoi parlare del festival DiverCity? 

Siamo ormai arrivati alla settima edizione di DiverCity, un progetto nato per raccontare la pluralità e la bellezza dell’individualità, delle culture, e di ogni tipo di identità. Siamo partiti dalle arti stimolando la costruzione di interrogativi a livello intellettuale rispetto a queste tematiche. 

Hai vinto il Black Carpet Awards per la leadership del cambiamento e della pluralità. Di che premio si tratta?

È un riconoscimento lanciato dalla fondatrice dell’associazione milanese Afro Fashion con l’intento di creare una piattaforma che potesse incoraggiare le comunità e i percorsi avviati da singole persone o da organizzazioni intorno alle tematiche della diversità. Il premio che mi è stato riconosciuto riguarda il mio impegno con il festival DiverCity e nella promozione della diversità culturale e della lotta contro le discriminazioni. Credo che iniziative di questo tipo siano fondamentali affinché le storie siano raccontate da chi effettivamente le vive. L’associazione Afro Fashion sta provando proprio a fare questo: dare voce a chi sta portando avanti i percorsi di inclusione.

Dove ti vedi fra dieci anni? 

Difficile dirlo perché tendo a lasciarmi trasportare dagli eventi. Sicuramente mi vedo ancora impegnato sulle stesse tematiche perché penso che ci sarà sempre bisogno di rappresentare le varie soggettività delle persone. Inoltre, spero, con il mio lavoro, di facilitare riflessioni e seminare cambiamenti. 

Andi Nganso, medico e imprenditore culturale

Mattia La Torre, biologa e ricercatrice di tipo A presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma

Sofia Gaudioso, biologa e comunicatrice della scienza, Sapienza Università di Roma