Julius Axelrod: dalle droghe una cura per la mente
Nella prima metà del Novecento, nel ghetto ebraico di New York nacque uno dei più grandi farmacologi dell’era moderna, futuro Nobel per la medicina e amante della libera ricerca
La sperimentazione delle droghe come rifiuto delle norme imposte: questa la filosofia della Beat Generation, movimento giovanile nato nell’underground newyorkese degli anni Cinquanta, quando i primi intellettuali cominciarono a far uso di LSD. Non furono solo gli artisti a subire il fascino di questa potente sostanza psichedelica: un biologo quarantenne del Lower East Side di Manhattan, Julius Axelrod, proprio in quel periodo mise in cantiere il primo studio sul famoso allucinogeno, dopo aver lavorato, dal 1946 al 1949, con Bernard Brodie, un farmacologo molto conosciuto per le sue ricerche sul metabolismo delle droghe.
A seguito della pubblicazione, nel 1957, di La distribuzione e il metabolismo dell’LSD, Axelrod continuò a occuparsi di droghe, convinto di poter trovare soluzioni ottimali alla cura di alcuni disturbi psichici. La scoperta più importante, che gli valse il premio Nobel per la medicina nel 1970, fu capire il funzionamento di alcuni neurotrasmettitori del sistema nervoso, quali l’epinefrina, la norepinefrina e la dopamina: dimostrò che sostanze psicoattive, come gli antidepressivi, agiscono positivamente sul sistema nervoso, ostacolando l’attivazione e il riassorbimento di questi neurotrasmettitori. Ciò avrebbe consentito la sintesi di alcune molecole farmaceutiche capaci di riequilibrare l’eventuale deficit di serotonina nell’organismo e tuttora utilizzate nella terapia di psicopatologie come la depressione. Tra queste, la più conosciuta è sicuramente la fluoxetina, commercializzata con il nome di Prozac, medicinale che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ebbe una diffusione tale da prestare il nome a una intera generazione. Nel 1997, infatti, «The Times» coniò la definizione di «Generazione Prozac» per descrivere la portata di un fenomeno ancora attuale, soprattutto tra gli adolescenti: chiamati neets in Gran Bretagna e twixter in America, si tratta sempre di giovani depressi e autoesclusi, che non sono interessati a ricevere un’istruzione né a cercare un lavoro.
Julius Axelrod, invece, spronava i molti dottorandi che passavano per il suo laboratorio di farmacologia del National Institute of Mental Health a essere attivi, e ad avere fiuto nella propria attività di ricerca, mettendo in campo intelligenza, immaginazione e determinazione. Pur essendo un superbo scrittore scientifico, attento alla semplicità del testo e al supporto dei dati sperimentali, era aperto a ogni suggestione e accoglieva con attenzione i suggerimenti dei suoi studenti. Sicuramente la metodicità nell’organizzazione delle sue giornate lo rendeva un tipo singolare agli occhi dei collaboratori: ogni mattina si recava in laboratorio alle 8:15, dove era impegnato con i suoi esperimenti fino alle 12:00; dopo un pranzo veloce, riservava un’ora alla lettura di testi narrativi in biblioteca, per i quali, fin dalle scuole superiori, aveva dimostrato un grande interesse; il resto del pomeriggio lo passava con i suoi studenti, lavorando alla stesura di testi scientifici.
Julius Axelrod non fu soltanto un umile uomo di scienza: subito dopo aver ricevuto il premio Nobel, sfruttò la visibilità internazionale per difendere la libera ricerca e il progresso del sapere. Arrivato a Stoccolma per la cerimonia, seppe che ad Aleksandr Solženicyn veniva impedito di ritirare il premio Nobel per la letteratura per motivi politici; per tutta risposta chiese ripetutamente e pubblicamente all’Unione Sovietica di liberare i cosiddetti refunisek, scienziati e intellettuali ebrei a cui veniva negato il diritto di espatrio.
Considerato il più grande farmacologo dell’era moderna per quanto riguarda le ricerche sulla droga, probabilmente il suo successo scientifico sarebbe stato meno eclatante se non avesse condotto la maggior parte dei suoi studi come tecnico di laboratorio: lui stesso si considerava uno scienziato «in panchina». Si era infatti laureato in biologia nel 1933, al City College di New York, la cosiddetta Harvard dei proletari, dopo aver tentato inutilmente di entrare nelle facoltà di medicina: all’epoca, la Columbia University, e poi Harvard, avevano imposto restrizioni numeriche all’ammissione di studenti ebrei per favorire la presenza dei WASP, i giovani protestanti bianchi di lingua inglese. Axelrod era invece figlio di due ebrei polacchi, emigrati a New York all’inizio del Novecento; vissuto nel Lower East Side di Manhattan, dove all’epoca risiedeva la comunità degli ebrei più poveri, ebbe il destino segnato da queste umili origini, e solo nel 1955, all’età di quarantacinque anni, riuscì a completare gli studi, conseguendo il dottorato in farmacologia necessario per assumere la direzione del laboratorio presso il National Institute of Mental Health. Appena laureato, aveva infatti preferito trovare un impiego (si era nel pieno della Grande Depressione e l’attività di cestaio ambulante del padre non era poi così redditizia); così, per una paga di appena 25 dollari, iniziò la carriera nel laboratorio della New York University, punto di partenza per gli studi sui neurotrasmettitori che, oltre a valergli un premio Nobel, gli avrebbero anche salvato la vita.
All’età di ottant’anni, infatti, Axelrod fu colto da un attacco cardiaco: venne trasportato alla Georgetown University Medical Center, ma la pressione sanguigna era così bassa da non far sperare nulla di buono. Solo una cosa riuscì a stimolare nuovamente le contrazioni cardiache: la somministrazione di una forma sintetica di noradrenalina. Fu dunque proprio grazie alla sua stessa scoperta che, dopo appena due mesi Axelrod poté tornare nel suo ufficio al National Institute of Mental Health, il posto dove era stato assunto quasi quarant’anni prima e dove continuò a lavorare fino al giorno della sua morte, il 29 dicembre 2004, all’età di novantadue anni.
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