La rivoluzione della credibilità: perché il Nobel per l’Economia 2021 riguarda tutti
Il Nobel per l’economia 2021 ha premiato i padri del metodo che ha permesso alle scienze sociali di iniziare a rispondere alle grandi domande sulle cause e gli effetti di fenomeni socioeconomici. Fenomeni che ci riguardano da vicino
di Camilla Orlandini e Giacomo Bocci
Non è mai facile fare delle scelte, soprattutto se avranno un impatto sulla vita di un’intera popolazione. La politica, infatti, deve spesso prendere decisioni che hanno profonde conseguenze sulla vita dei cittadini, ma i cui effetti non sono sempre facili da valutare.
I Nobel per l’economia di quest’anno, David Card, Joshua Angrist e Guido Imbens, hanno dimostrato che possiamo scoprire i rapporti causa-effetto di fenomeni che influenzano la vita di tutti i giorni, così che anche la politica possa conoscere le reali conseguenze delle sue scelte. Possiamo trovare le risposte alle grandi domande delle scienze sociali, se solo sappiamo dove guardare.
Un problema di controllo
Comprendere le cause o gli effetti di un fenomeno è una questione spinosa. Gli esperimenti scientifici con questo scopo si basano sul paragone tra un gruppo di soggetti a cui viene applicato un fenomeno di interesse (per esempio somministrato un farmaco) e un gruppo uguale che invece non riceve il trattamento (gruppo di controllo). I cambiamenti che si osservano sono quindi una diretta conseguenza del farmaco e si potrà definire una relazione di causa-effetto. Per dire ciò però è fondamentale che i ricercatori abbiano il completo controllo delle condizioni sperimentali, ovvero che sappiano con certezza che il farmaco è l’unica differenza tra i due gruppi, così da escludere l’influenza di altre variabili, come per esempio diverse costituzioni fisiche. Ecco, quindi, che entra in gioco l’esperimento randomizzato, i cui partecipanti dovranno essere assegnati ai due diversi gruppi in maniera casuale, così che le variabili che possono influenzare l’effetto finale siano omogeneamente distribuite. In questo modo entrambi i gruppi avranno sostanzialmente le stesse influenze e l’unica differenza rilevante sarà il farmaco.
Ci sono degli ambiti di ricerca, tuttavia in cui l’esperimento randomizzato è impossibile da realizzare per motivi pratici. Ambiti di ricerca che però pongono domande importanti: l’introduzione di un salario minimo per ridurre la povertà rischia di aumentare la disoccupazione? Che rapporto c’è tra grado di istruzione e retribuzione? Quali effetti ha l’immigrazione sui salari e sull’occupazione?
Trovare una risposta certa a questo genere di domande richiede di stabilire delle relazioni causa-effetto tra un determinato fenomeno sociale, o misura economica, e ciò che si osserva nella realtà. Tuttavia, le scienze sociali come l’economia si sono sempre dovute scontrare con la difficoltà nell’isolare dei gruppi di controllo per poter fare dei paragoni su così vasta scala. Si tratta di un problema che, agli occhi di alcuni, ha sempre sminuito la credibilità dell’economia come scienza. Basti pensare che il Nobel per l’economia non era compreso nel testamento di Alfred Nobel, alla base dell’istituzione dei premi: fu aggiunto, tra non poche contestazioni, solamente nel 1969, in occasione dei 300 anni della Banca di Svezia, che mise a disposizione uno speciale fondo per l’assegnazione del premio.
Con il loro lavoro, Card, Angrist e Imbens hanno ideato un nuovo metodo sperimentale, fornendo così finalmente alle scienze economiche quell’approccio empirico di cui da tempo avevano bisogno, in quella che è stata definita la “rivoluzione della credibilità”.
A caccia di esperimenti naturali
Il punto centrale della rivoluzione avviata dei tre premi Nobel sta nell’uso dei cosiddetti “esperimenti naturali”.
David Card intuì che nel mondo reale possono venirsi a creare naturalmente delle circostanze in cui una popolazione omogenea viene suddivisa in due gruppi che differiscono solo per uno o più aspetti, relativamente facili da isolare. Tali situazioni sono il prodotto di un evento (come un fenomeno naturale o una misura politica) che colpisce in modo casuale un gruppo rispetto all’altro (che quindi diventa un buon gruppo di controllo).
L’intuizione di Card si concretizzò nella ricerca del 1993, condotta insieme al collega Alan Krueger (che non ha potuto essere premiato in quanto deceduto nel 2019) che sfidò i dettami dell’economia teorica. Fino ai primi anni ’90, le teorie economiche prevedevano che l’aumento del salario minimo comportasse una riduzione dell’occupazione. Tuttavia, Card e Kruger analizzarono il tasso di occupazione nei fast food al confine tra il New Jersey (stato nel quale era stato appena introdotto un aumento del salario minimo dell’8%) e la Pennsylvania, dove tale politica non era stata applicata. La popolazione di confine rappresentava una situazione ideale, poiché le persone che abitavano quell’area erano influenzate dalle stesse variabili (ambientali, culturali, sociali) con l’unica differenza di appartenere a uno dei due stati e quindi di vedere il proprio salario aumentato o meno. I risultati dimostrarono che il New Jersey non aveva subito alcuna diminuzione del tasso di occupazione se paragonato allo stato confinante.
Angrist e Imbens, in seguito, hanno fornito gli strumenti per “leggere” il lavoro di Card, disegnando una cornice metodologica a sostegno della validità dei suoi risultati. In questo modo, hanno dimostrato che è possibile trarre precise conclusioni riguardo la causa e l’effetto di un fenomeno a partire dagli esperimenti naturali.
Card e Krueger applicarono poi questo approccio per indagare gli effetti dell’immigrazione sul mondo del lavoro. Gli autori sfruttarono il caso dell’esodo di Mariel (“Mariel boatlift”) quando nel 1980 oltre 120 mila persone lasciarono Cuba, spostandosi nel sud della Florida. Nel giro di pochi mesi, la città di Miami registrò un aumento vertiginoso della manodopera non specializzata. Tuttavia, confrontando i salari medi della forza lavoro afroamericana di Miami con quelli delle città vicine nello stesso periodo, emerse che, contrariamente a quanto atteso, l’improvviso shock migratorio non aveva ridotto né gli stipendi né l’occupazione della popolazione locale.
Angrist e Krueger, nel 1991, studiarono invece gli effetti della scolarizzazione sul reddito medio. La relazione positiva tra successo scolastico e lavorativo era già ben riconosciuta; tuttavia, non era chiaro se tra i due fenomeni ci fosse una relazione causa-effetto. I due studiosi utilizzarono un esperimento naturale che permise di valutare in maniera univoca l’effetto dell’istruzione sul guadagno lavorativo. Negli Stati Uniti, i nati nello stesso anno iniziano gli studi contemporaneamente, ma hanno la possibilità di ritirarsi solo una volta compiuti 16 anni (o 17, a seconda dello stato). In questo modo, i nati nel primo quarto dell’anno (gennaio-marzo) possono abbandonare la scuola molto tempo prima rispetto ai nati nell’ultimo quarto (ottobre-dicembre) che invece sono costretti ad aspettare l’inizio dell’anno accademico successivo, accumulando un periodo di educazione maggiore. Angrist e Krueger analizzarono la differenza di guadagno tra i giovani di queste due categorie, che condividevano tutte le caratteristiche eccetto il numero di anni di studio. I dati evidenziarono che i nati a gennaio tendevano ad avere un reddito del 9% più basso rispetto ai nati a dicembre, indentificando così un effetto reale dell’istruzione sul successo lavorativo.
Gli esperimenti di Card, Krueger, Angrinst e Imbens, e i loro modelli, hanno dunque indirizzato le scienze economiche verso un solido approccio empirico basato sugli esperimenti naturali, ad oggi un potente mezzo a disposizione dei decisori politici per valutare l’efficacia delle loro scelte.
Le risposte erano davanti a noi, e i premi Nobel del 2021 ci hanno indicato dove guardare.
La questione del “salario minimo” e il problema della comunicazione dell’economia
di Tommaso Nicolò
Quello del salario minimo è un tema assai dibattuto che coinvolge, sebbene con modalità differenti, tutti gli strati della società. Secondo i dati Eurostat, in Italia il tasso di working poor, ovvero di coloro che, pur lavorando, non guadagnano a sufficienza, è fra i più alti nell’Unione europea e area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). Eppure, nonostante diversi studi economici evidenzino i vantaggi del salario minimo (come quello premiato con il Nobel per l’economia di quest’anno), c’è ancora una certa reticenza da parte dei decisori politici nell’utilizzare questo strumento. Per capire a cosa siano dovute queste resistenze e quale ruolo giochi la comunicazione, abbiamo intervistato Alessandro Sahebi, giornalista e studioso di dinamiche sociali.
In Italia esiste il salario minimo?
No, perché l’Italia ha avuto, e ha tutt’oggi, un mercato del lavoro regolato da contratti collettivi nazionali che stabiliscono quale debba essere la paga minima di un lavoratore secondo la categoria a cui appartiene. Oggi però, proprio la difficoltà di categorizzare le diverse professioni, impedisce la tutela di tutti i lavoratori e senza un salario minimo le persone sono alla mercé dei datori di lavoro.
Quali vantaggi porterebbe l’introduzione del salario minimo?
I lavoratori sarebbero più tutelati, in quanto si definirebbe un tetto minimo di guadagno, con il conseguente abbattimento del tasso di working poor. Inoltre, secondo alcuni economisti, questa misura potrebbe aiutare a far girare l’economia stimolando i consumi.
Allora perché non viene applicata da tutti i paesi?
Semplicemente perché l’economia non è una scienza esatta, ma agisce in una società complessa dove si inseriscono numerosi fattori che portano a diverse interpretazioni della stessa situazione. Un esempio è proprio il salario minimo che divide gli economisti in favorevoli e contrari.
Perciò non è vero che in economia due più due fa quattro, come in matematica, eppure, spesso al grande pubblico non viene presentata così dai media.
Noi giornalisti abbiamo sempre dipinto gli economisti come dei moderni alchimisti, in grado di poter prevedere il futuro e di poter guidare la società verso la crescita. In realtà l’economia nasce come scienza sociale, ricca di correnti e punti di vista. Il fatto che utilizzi grafici e formule matematiche ha fatto sì che venisse elevata a scienza portatrice di verità assolute quando invece, in economia, le verità assolute quasi non esistono.
Qual è allora il compito che i comunicatori dovrebbero assolvere?
In primis abbattere l’idea che, anche un po’ ironicamente, va sotto il nome di “imperialismo economico”, secondo cui l’economia è l’unica materia da tenere in considerazione per analizzare la società. Questo non vuol dire sminuire il ruolo dell’economia nell’informazione, ma riportarlo a un sano realismo.
Gender Gap visto da un premio Nobel: il problema degli standard diseguali
di Camilla Orlandini e Giacomo Bocci
Per assicurare la qualità delle pubblicazioni, gli editori di riviste scientifiche sottopongono gli articoli che ricevono al vaglio di una commissione di pari (i referee, ovvero altri ricercatori esperti in materia).
Il premio Nobel per l’economia David Card, nel 2019, ha analizzato se il genere dei referee e degli autori influenzasse il metro di giudizio, dimostrando che mentre quello dei referee non ha effetto sulla valutazione, sia che esso combaci o meno con il genere dell’autore, il genere di quest’ultimo invece un’influenza ce l’ha.
Infatti, una volta pubblicato, l’articolo viene giudicato indirettamente da parte della comunità scientifica, attraverso il numero di citazioni in cui compare. Se le valutazioni dei referee fossero imparziali, la quantità di citazioni di due articoli simili dovrebbero all’incirca combaciare. Tuttavia, i paper scientifici scritti da donne vengono citati in letteratura il 25% in più rispetto ad articoli, apparentemente simili, scritti da uomini. Questa discrepanza è stata interpretata da Card come indice di disequilibrio tra il giudizio dei referee e quello successivo della comunità scientifica. I referee probabilmente impongono agli articoli delle ricercatrici standard di qualità maggiori da rispettare per ottenere la pubblicazione, probabilmente sottovalutando il loro potenziale di pubblicazione.
Lo studio del premio Nobel conferma quindi la presenza di stereotipi di genere nei confronti delle ricerche condotte da autrici femminili.
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