L’origine del buco nero al centro della nostra galassia
Uno studio di Sapienza fa chiarezza sull’origine del buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, identificato per la prima volta da Andrea Ghez e Reinhard Genzel, vincitori del premio Nobel per la fisica nel 2020
Gettare luce su un buco nero? Sembra un gioco di parole, eppure si può. Almeno sulle sue origini. Lo hanno fatto i ricercatori di Sapienza Università di Roma, in collaborazione con i colleghi dell’École Normale Supérieure di Parigi. Lo studio, coordinato da Roberto Capuzzo Dolcetta e pubblicato sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, suggerisce che il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia sia il risultato dell’aggregazione di buchi neri più leggeri che, orbitando, hanno perso energia fino a fondersi.
Un buco nero è un corpo celeste con un campo gravitazionale, cioè un campo di forze attrattive, così forte da non lasciare sfuggire niente. Trattiene tutto ciò che finisce al suo interno: materia, radiazione elettromagnetica e perfino la luce. E la nostra galassia non è l’unica a ospitarne uno: nel 2019 l’Event Horizon Telescope (Eht) ha rilasciato la prima immagine di un buco nero, l’M87, che si trova al centro dell’omonima galassia, situata a 55 milioni di anni luce da noi, nella costellazione della Vergine.
Il buco nero al centro della Via Lattea è stato individuato per la prima volta da Andrea Ghez e Reinhard Genzel, che per la loro scoperta hanno vinto il premio Nobel per la fisica nel 2020, congiuntamente a Roger Penrose. Dall’inizio degli anni Novanta Ghez e Genzel, con i rispettivi gruppi di ricerca, hanno studiato le orbite delle stelle che si concentrano nella regione centrale della nostra galassia, chiamata Sagittarius A*. La mappatura e le misurazioni del moto delle stelle, insieme all’evidenza di un’intensa emissione di raggi X e onde radio, hanno portato all’individuazione di un oggetto supercompatto – quattro milioni di volte più massiccio del Sole – e invisibile, che attrae le stelle facendole muovere vorticosamente. Scoperta che si aggiunge a quella di Penrose, il quale riuscì a mostrare matematicamente che la fisica dei buchi neri è coerente con la teoria della relatività generale di Albert Einstein, e che quindi l’interazione gravitazionale è in grado di modificare la geometria dello spazio-tempo.
Lo studio di Sapienza fornisce nuove informazioni sulla formazione dei giganti più misteriosi dell’Universo. Perché mentre l’origine dei cosiddetti buchi neri stellari è ormai nota, su quella dei buchi neri supermassicci – che hanno una massa milioni di volte superiore a quella del Sole – ci sono solo ipotesi. I primi derivano dal collasso gravitazionale di una stella massiccia al termine del suo ciclo vitale; i buchi neri supermassicci, invece, sarebbero il risultato di accrezione graduale di materia per effetto dell’attrazione gravitazionale. Attraverso complesse simulazioni teoriche e numeriche, il team di scienziati del Dipartimento di Fisica ha studiato il destino di un ammasso, definito “cluster”, di buchi neri di massa intermedia, dimostrando come tra questi si verifichino successivi eventi di fusione, che portano alla formazione di un punto di aggregazione che può aumentare la propria massa fino a più del 20% della massa iniziale del cluster.
Le collisioni potrebbero quindi essere all’origine dei buchi neri supermassicci. Un nuovo tassello si aggiunge alle conoscenze che già abbiamo e ci avvicina alla possibilità di decifrare la complessità del nostro Universo.
Immagine in evidenza: {Wikimedia commons}
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