ed era come un mal d’Africa
In Africa si punta su meccanizzazione e automatizzazione delle colture per rilanciare l’agricoltura. Ma potrebbero esserci conseguenze nefaste per la biodiversità. Il punto degli scienziati
Precious Banda è un’agricoltrice che vive e lavora in Zambia. Fino a poco tempo fa, coltivare il suo ettaro di granturco le costava una fatica immane: centinaia di ore per preparare i campi prima della semina, e altre centinaia di ore per sgombrarlo dalle erbacce prima del raccolto. Tutto lavoro fatto a mano, con una piccola zappa. Anche adesso, che le cose sono cambiate in meglio – ora Precious Banda ha un trattore, e può contare sulla collaborazione dei vicini per spargere gli erbicidi – racconta di “continuare a sentire la fatica”, e di come la vita, ora, “sia diventata molto più facile”. Ma la donna ha notato anche qualcos’altro. Attorno alla sua fattoria ronzano molte meno api di un tempo. E ci sono anche molti meno bruchi, che per lei e la sua famiglia costituivano un’eccellente fonte di alimentazione.
La storia di Precious Banda è tutt’altro che isolata, e soprattutto non è da sottovalutare. Apparentemente la diminuzione di api e bruchi, a fronte di un miglioramento così evidente delle condizioni di vita, sembra poca cosa. Ma non è così, come ha recentemente fatto notare, in un paper pubblicato sulla rivista Biological Conservation, un’équipe di esperti (economisti, agronomi ed ecologi) dello International Maize and Wheat Improvement Center (CIMMYT), del Department of Ecology of Tropical Agricultural System alla University of Hohenheim e del Center for Development Research (ZEF)alla University of Bonn: “Questa storia è un esempio perfetto”, spiegano gli scienziati, “della situazione che milioni di agricoltori africani stanno affrontando in questo momento”. Per comprendere i contorni (e le possibili conseguenze) di questa situazione bisogna fare un passo indietro. E tornare al 31 gennaio 2015, quando, nel corso della ventiquattresima Assemblea ordinaria dei capi di stato e di governo dell’Unione Africana, venne ufficialmente ratificata la cosiddetta Agenda 2063, ossia un insieme di iniziative da mettere in campo con l’obiettivo di promuovere, in Africa, lo sviluppo economico (compresa l’eradicazione della povertà “entro una generazione”), l’integrazione politica (tramite la fondazione di un’Unione confederata di stati), il miglioramento di democrazia, giustizia, pace e sicurezza in tutto il continente, il rinsaldamento dell’identità culturale africana e altri nobili fini. Uno dei mezzi per raggiungere questi obiettivi, enfatizzato nel documento, è promuovere lo sviluppo agricolo del continente, rendendo le colture più meccanizzate, sostenibili e produttive. E nel contempo, si spera, migliorando le condizioni di vita di chi ci lavora, vedi la storia di Precious Banda.
Ma tra il dire e il fare, proverbialmente, c’è di mezzo il mare. Che in questo caso è molto difficile da navigare. Gli autori del paper sopra citato hanno fatto notare che, anche se da una parte lo sviluppo tout court e rapido dell’agricoltura sia effettivamente necessario per ridurre fame e povertà nel continente africano, c’è un rovescio della medaglia da tenere in considerazione. Ossia il rischio che un’”esplosione selvaggia” dell’agricoltura porti a una perdita significativa di biodiversità in Africa. E la perdita della biodiversità è un elemento che, a cascata, innesca – tra le altre cose – una riduzione della sicurezza alimentare e idrica e una diminuzione della fauna selvatica. Il che, infine, ha conseguenze anche sull’agricoltura: un possibile e pericoloso circolo vizioso che bisognerebbe tagliare sul nascere.
Come muoversi, dunque? Per capirlo, bisogna anzitutto approfondire qual è il legame e quali sono le interazioni tra agricoltura e biodiversità. In generale, a ogni sottrazione di suolo alla natura selvatica per convertirlo a uso agricolo corrisponde una certa perdita della biodiversità. E in Africa, come ha certificato uno studio pubblicato su Science nel giugno 2021, il 75% della crescita agricola è legato proprio allo “strabordamento” delle fattorie in zone precedentemente occupate da foreste e savane, il che provoca la frammentazione degli habitat della fauna selvatica. E non è solo questione di spazio occupato: i metodi dell’agricoltura intensiva – primo fra tutti l’uso di erbicidi e pesticidi – inficiano per forza di cose la biodiversità, facendo scomparire molte specie o costringendole a trasferirsi altrove.
“L’importanza di un’agricoltura rispettosa della biodiversità”, scrivono gli autori del lavoro, “finalmente comincia a essere riconosciuta più ampiamente. Ma gli sforzi per incoraggiare un’agricoltura di questo tipo spesso devono scendere a compromessi con le esigenze della manodopera. Se i compromessi diventano troppi, gli sforzi per la conservazione della biodiversità diventano inutili”. Qualche altro dato per comprendere quello che c’è sui piatti della bilancia: uno studio pubblicato ad aprile 2019 sulla rivista Food Policy ha evidenziato come l’uso dei trattori in Zambia ha ridotto da 226 a 10 le ore necessarie a preparare un ettaro di terra per la semina; il saggio A feminist political ecology of West Africa’s Herbicide Revolution spiega che in Burkina Faso gli erbicidi sono chiamati “piccoli aiutanti delle mamme” per quanto riducono il lavoro delle donne nei campi.
Sull’altro piatto della bilancia ci sono, per esempio, le conclusioni di un altro studio, pubblicato nel 2020 sulla rivista Agronomy, che ha evidenziato come la meccanizzazione dell’agricoltura comportasse una riduzione significativa del numero degli alberi e una modifica delle dimensioni e della forma dei terreni, il che ha avuto come effetto “la perdita della diversità agricola e del ‘patchwork’ di habitat”; i pesticidi – continua lo studio – sono stati spesso utilizzati in modo sbagliato, danneggiando le forme di vita del sottosuolo e arrivando fino a inquinare le falde acquifere.
Dunque, è necessario trovare un compromesso. Ma quale? Gli esperti parlano di biodiversity-smart agriculture: uno scenario in cui “i macchinari si adattano alla dimensione dei campi, e non il contrario. Macchine più piccole possono manovrare più facilmente tra gli alberi, le siepi e gli altri elementi cruciali per la biodiversità”. E ancora, per arrivare ai pesticidi, “adottare soluzioni biologiche (come la rotazione dei raccolti) combinate a soluzioni meccaniche (lo spruzzamento di precisione) per ridurre la quantità di pesticidi”, nonché incentivare la creazione di “isole di alberi”, un sistema che, come ha fatto recentemente notare uno studio pubblicato nel maggio scorso su Nature, preserva la biodiversità senza avere impatto sulla quantità dei raccolti. In questo modo sarà possibile ridurre al minimo il costo della preservazione della biodiversità (in termini di raccolto e di ore lavoro) sul singolo agricoltore. E la bilancia sarà finalmente in equilibrio.
Sandro Iannaccone, fisico e giornalista. Insegna giornalismo scientifico al master “la scienza nella pratica giornalistica” della Sapienza università di Roma
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