Un Nobel “microscopico”
di Denise Albertin
Questo saggio partecipa al concorso Hansel e Greta. La selezione coinvolgera’ una giuria di esperti e una popolare. Per votare cliccare su questo link, selezionare il tema desiderato e cliccare sul pulsante “vota” in fondo alla pagina.
Siamo abituati a vedere gli oggetti come ci appaiono nella loro grandezza naturale e…se li vedessimo da vicino sempre più nitidi?
E’ proprio il mondo infinitamente piccolo e la sua struttura ad aver incuriosito i premi Nobel Jacques Dubochet, Joachim Frank e Richard Henderson. Tre personaggi contemporanei con la vocazione per la scienza e con brillanti percorsi universitari.
Nonostante gli fosse stata diagnosticata la dislessia, Dubochet era convinto che sarebbe diventato uno scienziato, infatti costruì un telescopio per capire di più il mondo, ma tra i numerosi impegni il protagonista era il suo laboratorio di microscopia elettronica.
L’altro membro della squadra fu Frank, che già all’età di otto anni compiva esperimenti sotto la veranda di casa. A partire dal 1975 sviluppò un metodo per fondere le immagini bidimensionali ricavate dai microscopi, ma ci vollero alcuni anni prima di giungere a quelle tridimensionali delle molecole biologiche.
Il terzo membro del gruppo fu Henderson, nato a Edimburgo. Affascinato fin da subito dai numeri, decise di dedicarsi alla biofisica.
Il percorso comune di ricerca iniziò da lui, che nel 1990 ottenne un’immagine tridimensionale della rodopsina, molecola che si trova avvolta in una membrana, in organismi sensibili alla luce. Proprio la membrana e una soluzione di zucchero custodivano la proteina dai danni del vuoto insieme a un fascio elettronico di limitata potenza. L’idea di Henderson per prevenire la disidratazione dei campioni prevedeva l’uso di una soluzione di glucosio, che però non era adatta per molecole solubili in acqua.
La soluzione del problema si ebbe grazie a Dubochet: raffreddare l’acqua senza dar tempo ai cristalli di formarsi e far rimanere le molecole di acqua in uno stato disordinato. Egli sviluppò una tecnica che sarebbe diventata la base della criomicroscopia elettronica: iniziò a sciogliere i campioni biologici da osservare in acqua, che veniva successivamente vetrificata.
Una volta ottenute immagini tridimensionali a elevata risoluzione, Frank sviluppò un algoritmo matematico che consentiva a un computer di identificare schemi ricorrenti all’interno di immagini, con un risultato finale preciso. La criomicroscopia elettronica ha permesso una rivoluzione della biochimica, con la realizzazione di diverse istantanee di processi chimici che si svolgono nelle scale atomiche e nell’arco di frazioni di miliardesimi di secondo.
Nel 2017 è stato riconosciuto il lavoro di questi ricercatori per la realizzazione della Microscopia crioelettronica o Cryo-EM. Un nome complesso per un metodo rivoluzionario: un sistema che permette di ottenere immagini di atomi facenti parte di strutture proteiche e in grado di produrre mappe dettagliate delle proteine.
L’unica nota dolente è il costo (milioni di euro) delle macchine di Cryo-EM, poche per ogni Paese. Ma la scoperta guarda soprattutto al futuro e potrà essere impiegata, ad es., in diversi ambiti della medicina, quando sarà disponibile un maggior numero di macchinari.
E’ stato condotto di recente uno studio sul cervello di una donna che aveva sofferto per dieci anni di Alzheimer: mediante l’utilizzo della criomicroscopia elettronica è stata possibile un’osservazione più ravvicinata dei filamenti prodotti dalla proteina tau per comprendere le sostanze di cui è composta. Se queste venissero individuate, si potrebbe sintetizzare un farmaco in grado di dissolvere i filamenti o di prevenire la loro formazione e ciò sarà fondamentale nell’industria farmaceutica.
Il Nobel a questi tre scienziati sottolinea quanto il lavoro di squadra, specie in ambito scientifico, sia significativo: la condivisione di idee e soluzioni ha reso questo team vincente.
Esistono soltanto due cose: scienza e opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza -diceva Ippocrate- per cui il lavoro di squadra non può essere altro se non un passo che porta verso una conoscenza condivisa ed egualitaria.
Siamo abituati a vedere gli oggetti come ci appaiono nella loro grandezza naturale e…se li vedessimo da vicino sempre più nitidi?
E’ proprio il mondo infinitamente piccolo e la sua struttura ad aver incuriosito i premi Nobel Jacques Dubochet, Joachim Frank e Richard Henderson. Tre personaggi contemporanei con la vocazione per la scienza e con brillanti percorsi universitari.
Nonostante gli fosse stata diagnosticata la dislessia, Dubochet era convinto che sarebbe diventato uno scienziato, infatti costruì un telescopio per capire di più il mondo, ma tra i numerosi impegni il protagonista era il suo laboratorio di microscopia elettronica.
L’altro membro della squadra fu Frank, che già all’età di otto anni compiva esperimenti sotto la veranda di casa. A partire dal 1975 sviluppò un metodo per fondere le immagini bidimensionali ricavate dai microscopi, ma ci vollero alcuni anni prima di giungere a quelle tridimensionali delle molecole biologiche.
Il terzo membro del gruppo fu Henderson, nato a Edimburgo. Affascinato fin da subito dai numeri, decise di dedicarsi alla biofisica.
Il percorso comune di ricerca iniziò da lui, che nel 1990 ottenne un’immagine tridimensionale della rodopsina, molecola che si trova avvolta in una membrana, in organismi sensibili alla luce. Proprio la membrana e una soluzione di zucchero custodivano la proteina dai danni del vuoto insieme a un fascio elettronico di limitata potenza. L’idea di Henderson per prevenire la disidratazione dei campioni prevedeva l’uso di una soluzione di glucosio, che però non era adatta per molecole solubili in acqua.
La soluzione del problema si ebbe grazie a Dubochet: raffreddare l’acqua senza dar tempo ai cristalli di formarsi e far rimanere le molecole di acqua in uno stato disordinato. Egli sviluppò una tecnica che sarebbe diventata la base della criomicroscopia elettronica: iniziò a sciogliere i campioni biologici da osservare in acqua, che veniva successivamente vetrificata.
Una volta ottenute immagini tridimensionali a elevata risoluzione, Frank sviluppò un algoritmo matematico che consentiva a un computer di identificare schemi ricorrenti all’interno di immagini, con un risultato finale preciso. La criomicroscopia elettronica ha permesso una rivoluzione della biochimica, con la realizzazione di diverse istantanee di processi chimici che si svolgono nelle scale atomiche e nell’arco di frazioni di miliardesimi di secondo.
Nel 2017 è stato riconosciuto il lavoro di questi ricercatori per la realizzazione della Microscopia crioelettronica o Cryo-EM. Un nome complesso per un metodo rivoluzionario: un sistema che permette di ottenere immagini di atomi facenti parte di strutture proteiche e in grado di produrre mappe dettagliate delle proteine.
L’unica nota dolente è il costo (milioni di euro) delle macchine di Cryo-EM, poche per ogni Paese. Ma la scoperta guarda soprattutto al futuro e potrà essere impiegata, ad es., in diversi ambiti della medicina, quando sarà disponibile un maggior numero di macchinari.
E’ stato condotto di recente uno studio sul cervello di una donna che aveva sofferto per dieci anni di Alzheimer: mediante l’utilizzo della criomicroscopia elettronica è stata possibile un’osservazione più ravvicinata dei filamenti prodotti dalla proteina tau per comprendere le sostanze di cui è composta. Se queste venissero individuate, si potrebbe sintetizzare un farmaco in grado di dissolvere i filamenti o di prevenire la loro formazione e ciò sarà fondamentale nell’industria farmaceutica.
Il Nobel a questi tre scienziati sottolinea quanto il lavoro di squadra, specie in ambito scientifico, sia significativo: la condivisione di idee e soluzioni ha reso questo team vincente.
Esistono soltanto due cose: scienza e opinione; la prima genera conoscenza, la seconda ignoranza -diceva Ippocrate- per cui il lavoro di squadra non può essere altro se non un passo che porta verso una conoscenza condivisa ed egualitaria.
Molto interessante.