one health one ocean
Il benessere e la sopravvivenza della specie umana sono legati al benessere e alla sopravvivenza del mare. Che cambiamenti climatici e inquinamento stanno mettendo a serio rischio.
«Thálassa, Thálassa!», cioè «Mare, mare!»: così gridò Senofonte ai suoi soldati, quando dopo una marcia sfiancante riuscirono a guadagnare finalmente la costa del Mar Nero. E uno sprone simile – ma per fini meno bellicosi – servirebbe forse anche oggi, due millenni e mezzo dopo quell’Anàbasi, per ricordarci che del mare dovremmo prenderci cura, perché il mare è la vita, e senza il mare la vita non potrebbe esistere.
Di più: al mare – e più in generale all’acqua – sono legate a doppio filo la salute e il benessere di tutte le specie viventi. La scienza lo sa bene: questa è infatti una delle idee alla base dei principi di one health e planetary health, secondo i quali, come suggeriscono i nomi, la salute umana è indissociabile dallo stato delle risorse naturali e delle variabili ambientali da cui la stessa salute dipende. Un tema così importante da essere addirittura entrato a far parte dell’agenda dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, che insieme a Fao, Oie e Who hanno realizzato, all’inizio di quest’anno, un sorta di vademecum per un approccio one health a livello globale, con sei punti cardine da perseguire: ben tre di questi obiettivi – la salvaguardia della natura, la disponibilità di acqua pulita, l’azzeramento degli incentivi per i combustibili fossili – riguardano, più o meno direttamente, mari e oceani.
la salute umana è indissociabile dallo stato delle risorse naturali e delle variabili ambientali da cui la stessa salute dipende
Nonostante questi sforzi, tuttavia, lo scenario non è dei più rosei: la salute del mare e degli organismi che lo popolano sta infatti progressivamente deteriorandosi, e la colpa è quasi unicamente degli esseri umani: a mettere in pericolo le acque del nostro pianeta, in molti modi, sono infatti soprattutto inquinamento e cambiamenti climatici. Che stanno tra l’altro innescando un circolo vizioso difficile da rompere: gli oceani fungono infatti da enormi “serbatoi” e scambiatori di calore – non a caso si parla di “effetto tampone” – nel senso che tendono ad “accumulare” per un certo tempo ed entro una certa soglia il calore in eccesso, salvo poi riscaldarsi e “rilasciarlo” progressivamente nell’atmosfera, aumentando così la temperatura del pianeta e facendo ricominciare il ciclo. Cominciamo da qualche numero: nel complesso, quasi tutta l’acqua presente sulla Terra (la cosiddetta idrosfera) è contenuta nel mare e negli oceani (che ne costituiscono il 97%, per la precisione), che si estendono su circa tre quarti della superficie del nostro pianeta; il restante 3%, invece – l’acqua dolce – si trova principalmente in ghiacciai, nevi perenni e falde sotterranee. Cosa sta succedendo a tutta quest’acqua? Niente di buono, a quanto pare. Il primo e più preoccupante sintomo è la temperatura: gli ultimi otto anni, stando a due rapporti indipendenti pubblicati da Nasa-National Oceanic and Atmospheric Administration (Noaa) e dal Copernicus Climate Change Service all’inizio del 2023, sono stati i più caldi mai registrati sul nostro pianeta; e come dicevamo, il mare, allo stesso modo di cosa succederebbe con una gigantesca spugna, ha assorbito circa il 90% di tutto questo calore in eccesso.
le acque marine sono sempre più povere di ossigeno: 2% in meno dalla metà del Novecento, pari a circa 77 miliardi di tonnellate, e la perdita potrebbe raddoppiare entro la fine del secolo
Menomale: se così non fosse stato, la temperatura dell’atmosfera sarebbe oggi più calda di circa 33 °C, il che vorrebbe dire che il nostro pianeta sarebbe di fatto invivibile per molte delle specie che lo popolano oggi, esseri umani compresi. Assorbendo il calore, gli oceani si sono però ovviamente riscaldati: si stima che negli ultimi quarant’anni la temperatura media delle acque sia aumentata di circa 0,1 °C ogni decennio. Un decimo di grado potrebbe sembrare poca cosa, ma non è così: si tratta, al contrario, di un mutamento significativo e repentino, che ha impatti visibili in termini di arretramento delle calotte polari (a marzo scorso, per esempio, da una piattaforma di ghiaccio antartica si è staccato un iceberg grande quanto Londra), innalzamento del livello del mare (che è salito di circa 20 centimetri dal 1880 e che attualmente continua a salire al ritmo di poco più di tre millimetri l’anno), scomparsa delle barriere coralline (lo Intergovernmental Panel on Climate Change Ipcc, uno degli istituti più importanti tra quelli che si occupano di clima, ha recentemente ammonito che se non riusciremo a contenere l’aumento della temperatura media globale al di sotto di 2°C scomparirà oltre il 99% delle barriere coralline), migrazione di pesci tropicali, che colonizzano le aree temperate, inondazioni costiere, cicloni sempre più violenti.
la pesca eccessiva e non sostenibile (che nel Mediterraneo riguarda il 62% dell’intero settore) sta decimando le popolazioni di moltissime specie ittiche, perché i pesci non hanno il tempo di riprodursi
La diagnosi non finisce qui: oltre al calore, gli oceani assorbono infatti anche anidride carbonica (per circa un terzo di quella derivante dalle emissioni antropiche, si stima), il che sta rendendo le acque sempre più acide. In particolare, l’anidride carbonica si trasforma in acido carbonico e diminuisce il pH dell’acqua, mettendo a rischio la sopravvivenza di molti organismi alla base della catena alimentare (molluschi, crostacei, coralli, krill e microalghe del plancton) e, a cascata, anche quella degli animali più grandi che se ne cibano. Si stima che dalla rivoluzione industriale a oggi, soprattutto a causa delle emissioni di anidride carbonica prodotte dai combustibili fossili (ed è per questo che qualche riga fa abbiamo evidenziato, tra gli altri, l’obiettivo delle Nazioni Unite di azzerare gli incentivi per lo sfruttamento dei combustibili fossili), l’acidità delle acque marine sia aumentata del 26% circa, con una rapidità cento volte maggiore rispetto alle variazioni naturali avvenute negli ultimi 55 milioni di anni.
si stima che ogni anno finiscano negli oceani circa 13 milioni di tonnellate di plastica. Queste creano danni enormi agli ecosistemi esistenti e contribuiscono a da generarne di nuovie da “risalire” la catena alimentare fino ad arrivare agli esseri umani
Ancora: sempre a causa della loro maggiore temperatura, le acque marine sono sempre più povere di ossigeno (2% in meno dalla metà del Novecento, pari a circa 77 miliardi di tonnellate, e la perdita potrebbe raddoppiare entro la fine del secolo); la pesca eccessiva e non sostenibile (che nel Mediterraneo riguarda addirittura il 62% dell’intero settore) sta decimando le popolazioni di moltissime specie ittiche, perché i pesci non hanno il tempo di riprodursi; la plastica e i suoi frammenti (le famigerate micro e nanoplastiche) sono ormai così abbondanti negli oceani (si stima che ogni anno finiscano negli oceani circa 13 milioni di tonnellate di plastica) da creare danni enormi agli ecosistemi e addirittura da generarne di nuovi, e da “risalire” la catena alimentare fino ad arrivare agli esseri umani. È tempo di agire.
Sandro Iannaccone, fisico e giornalista. Insegna giornalismo scientifico al master “la scienza nella pratica giornalistica” della Sapienza università di Roma
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