Inarea Sant’Andrea
con Armando Bartolazzi
di Mattia La Torre, Sofia Gaudioso e Carmine Nicoletti
Armando Bartolazzi, Dirigente medico presso l’Unità di Istologia e Anatomia patologica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Sant’Andrea di Roma ci parla dell’Istituto e di come gli studenti si integrano in questa realtà ospedaliera. Ma anche delle sue ultime attività di ricerca che riguardano i tumori spitzoidi, cioè lesioni melanocitarie di difficile interpretazione diagnostica, e delle opportunità nell’utilizzo di galectina-3, una proteina usata dalle cellule tumorali per sfuggire alla risposta immunitaria, nella previsione della risposta all’immunoterapia.
Dr. Bartolazzi, entrando abbiamo visto molti ragazzi, studenti di medicina di diversi reparti. Come si trovano gli studenti al Sant’Andrea?
Qui gli studenti sono felici perché sono pochi, ben seguiti e le lezioni sono ben organizzate. Però nella mia esperienza qui in anatomia patologica abbiamo perso l’opportunità di provare a traatenere tre-quattro giovani colleghi eccellenti che nel momento in cui si sono interfacciati con realtà nordeuropee o addirittura extraeuropee, hanno deciso di rimanere all’estero. Io posso dire che gli studenti sembrano comunque felici di lavorare in questa struttura perché il contesto qui è più da liceo, tipo una grande famiglia.
Al Sant’Andrea gli studenti sono felici perché sono pochi, ben seguiti e le lezioni sono ben organizzate. Qui il contesto è più da da liceo, è tipo una grande famiglia.
Siamo molto influenzati anche da quello che vediamo nelle serie tv. Immaginiamo gli specializzandi come in Dr. House o in Grey’s Anatomy ma è davvero vosì?
In gran parte dei reparti è così e devo dire che gli specializzandi, cioè i medici in formazione, qui trovano un bell’ambiente da questo punto di vista. Poi ogni reparto ha una sua storia ma per quanto riguarda anatomia patologica, penso che qui si formino bravi patologi con l’unico limite della tipologia della casistica. Al Sant’Andrea non è possibile fare esperienza diagnostica su patologie che in questo contesto non appaiono frequenti, vedi ad esempio i tumori del pancreas, che giungono molto raramente alla nostra osservazione per la mancanza di competenze chirurgiche specifiche. Del resto non è possibile fare tutto e bene….. Quindi alla fine si formeranno patologi che per forza maggiore avranno carenze formative da dover sanare. Da qui la necessità di ampliare la rete formativa delle scuole di specializzazione consentendo la frequenza ed il tirocinio dei giovani colleghi in altre Istituzioni Sanitarie del territorio, qualificate.
Ma è possibile avere una conoscenza di tutto?
È inverosimile che uno studente possa trovare al Sant’Andrea come al Policlinico o in un altro ospedale tutto lo scibile della conoscenza medica. Quindi uno studente di medicina riceverà una formazione generale su più patologie e poi si specializzerà o ultra specializzerà anche andando all’estero in un settore in accordo con le sue aspettative e i suoi desiderata. Dal punto di vista proprio strutturale e logistico-organizzativo, credo comunque ci si dovrebbe aspettare un po’ di più da un ospedale universitario, senza dover dare responsabilità specifiche a nessuno.
L’impegno al Sant’Andrea è grande. La didattica è parte integrante dell’attività clinica e devo dire che ci sono stati sempre bravi studenti motivati e ben preparati, con alcune punte di eccellenza.
Come si coniuga la ricerca, la clinica e la didattica?
Chiaramente l’impegno è grande, io ho speso anche dodici ore al giorno qui. La didattica è parte integrante dell’attività clinica. Nel caso dell’anatomia patologica quando arrivano i preparati istologici gli studenti sono seduti insieme allo strutturato che spiega più o meno qual è l’approccio alla sezione istologica e quindi alla diagnosi. Devo dire che ci sono stati sempre bravi studenti motivati e ben preparati, con alcune punte di eccellenza. Io sono un ospedaliero un po’ atipico perché provengo da un Irccs, cioè un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, dove l’attività di ricerca era di gran lunga più intensa. Devo dire che la ricerca è stata fatta anche a grandi livelli qui al San’Andrea anche se purtroppo ci sono pochi laboratori e pochi medici dedicati alle attività scientifica seria.
Ho due progetti in fase di completamento. Il primo riguarda i tumori spitzoidi e dei marker che ne definiscono il grado di malignità. Il secondo riguarda l’utilizzo di galectina-3 nella previsione della risposta all’immunoterapia.
Oggi di che cosa si occupa, cosa studia?
Ho due progetti in fase di completamento. Il primo è la definizione di alcune lesioni melanocitarie definite tumori spitzoidi. Queste lesioni hanno una variabilità diagnostica molto importante cioè sono di difficile interpretazione. I tumori spitzoidi, infatti, sono uno spettro di lesioni che vanno dal nevo banale di spitz, al melanoma spitzoide. Nel mezzo ci sono delle forme che sono attualmente indistinguibili, cioè indefinibili dal punto di vista prognostico. Io mi sono appassionato a questo tipo di lesioni per cercare di integrare i quadri morfologici con gli aspetti molecolari e fenotipici e cercare di creare una sorta di bilancia per vedere cosa pesa di più per definire il tumore maligno e cosa pesa di più per definire invece la lesione benigna. Adesso stiamo mettendo insieme i dati raccolti per cercare di tirar fuori una buona storia. Poi sto concludendo un lavoro di tipo multicentrico molto interessante per l’imaging tumorale dove c’è in parte una collaborazione con la Tekniska University di Monaco di Baviera. Tutto parte dalla Galectina-3 che io sto studiando da circa 22 anni. Questa proteina ci ha consentito già di mettere su un test diagnostico per la tiroide che oggi si usa in tutto il mondo un progetto che avevo iniziato al Karolinska e che si è completato proprio qui al Sant’Andrea e che ci ha dato estrema soddisfazione. Forse è la cosa più importante che sono riuscito a fare in tutti questi anni di ricerca, perché ho visto l’applicazione clinica. C’è stata un’evoluzione di questa cosa, la Galectina-3 infatti se è espressa nei tumori, ed è espressa in gran parte dei tumori, manda in apoptosi i linfociti citotossici intratumorali. La modulazione di espressione della Galectina-3 è quindi un meccanismo che le cellule tumorali adottano per l’immuno-escape, cioè per sfuggire alla risposta immunitaria. Quello che abbiamo scoperto qualche anno fa è che se i tumori esprimono Galectina-3 e i pazienti vengono sottoposti a immunoterapia con i check point inibitori, la risposta non c’è o è molto scarsa. Questo significa che tu sblocchi il freno inibitorio della risposta immune ma se Galectina-3 manda in apoptosi i proiettili e cioè i linfociti T, lo sblocco è inutile e non rispondono. Di contro, se i tumori non esprimono o hanno solo tracce di Galectina-3 si ha una risposta radiologica e clinica misurabile, cioè le dimensioni dei tumori si riducono. Quindi Galectina-3 è chiaramente coinvolta nei meccanismi di risposta all’immunoterapia. Da un anno ho lanciato uno studio multicentrico, retrospettivo, cioè ho cercato di studiare tutte le biopsie di pazienti con cancro del polmone del tipo non small cell cancer quindi non microcitoma e stiamo valutando retrospettivamente l’espressione di Galectina-3 in pazienti che hanno fatto immunoterapia in prima linea. I risultati sembrano promettenti, siamo intorno ai 200 casi e sembra che i dati siano confermati. Se confermiamo questa cosa, potrebbe entrare in pratica clinica un test predittivo di risposta alla immunoterapia. L’imaging è la chicca finale. Perché io ho pensato di marcare l’anticorpo che avevo prodotto per Galectina-3 e di utilizzarlo in immuno pet anche questa è una collaborazione con la Tekniska University di Monaco di Baviera in particolare con Calogero D’Alessandra, un nostro ex-studente. Nel mese di dicembre 2022 hanno cominciato in Germania a studiare i primi pazienti in vivo E quindi la mia sonda anticorpale opportunamente ingegnerizzata si sta affacciando nella pratica clinica come sonda per l’imaging tumorale. In questo modo – se abbiamo un paziente con metastasi da carcinoma polmonare che deve fare immunoterapia, visti i costi di queste terapie, io gli faccio una immuno pet con Galectina 3 se le metastasi si accendono e sono visibili il paziente non potrà fare un’immunoterapia classica col pembrolizumab ma dovrà fare una terapia molecolare o fare un pembrolizumab con un inibitore della Galectina-3. In questo modo selezioniamo in vivo e in tempo reale i pazienti da candidare all’immunoterapia. Questa selezione ha risvolti importanti sul sistema sanitario nazionale e sulla sostenibilità perché i costi di queste terapie sono elevatissimi e quindi se uno può ottimizzare la selezione dei pazienti da trattare in una certa maniera fai un servizio non solo al paziente ma anche all’economia dello stato.
Le differenze? Non sono diversi, ma il medico ricercatore suggerisce al biologo quali sono le linee di ricerca da seguire per avere un’applicazione clinica.
Il medico ricercatore in che cosa è diverso dal biologo ricercatore?
Non sono diversi. Il medico ricercatore suggerisce al biologo quali sono le linee di ricerca da seguire per avere un’applicazione clinica. Infatti, il biologo potrebbe non sapere che quello che ha in mano potrebbe avere un’applicazione clinica. È lì che si integrano le competenze e questo secondo me è il lavoro più bello del mondo.
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