Le piccole città servono ancora a qualcosa?
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia nel 2008, propone alcune riflessioni sulle piccole città. Perché appaiono e scompaiono? Il fallimento dei piccoli centri urbani in bilico fra globalizzazione, ascesa delle metropoli e caso
Perché una piccola città, un tempo fiorente centro di commerci o sede di importanti industrie, si trasforma in pochi decenni in un luogo economicamente e socialmente depresso? Paul Krugman, che ha ricevuto il premio Nobel per gli studi sul commercio globale e la concentrazione delle attività commerciali verso i grandi centri urbani, prova a rispondere a queste domanda. Secondo l’economista la sorte fallimentare delle piccole città americane è una specie di rovina del giocatore d’azzardo, quasi un gioco fatto di fisiologiche cadute e rinascite. La domanda da cui parte Krugman sembra strana ̶ e per certi versi lo è ̶ ma porta a una serie di riflessioni interessanti. Qual è lo scopo delle piccole città nell’economia moderna?
Il ruolo che avevano un tempo i piccoli centri urbani è abbastanza chiaro: erano luoghi necessari per le popolazioni che lavoravano nell’agricoltura e nello sfruttamento delle risorse naturali nelle aree circostanti. Oggi contadini e minatori sono quasi totalmente scomparsi e molte piccole comunità rurali e minerarie si sono svuotate. Ciononostante, molti paesi agricoli si sono evoluti diventando importanti centri industriali, di solito per alcuni settori particolari, attirando altri lavoratori con qualifiche specifiche. Che cosa ha determinato quali industrie dovessero svilupparsi nelle piccole città? In alcuni casi sono stati importanti le peculiarità del luogo o la vicinanza a certe risorse, ma nella maggioranza dei casi si è trattato di eventi casuali. Poi, in sequenza, lo sviluppo di una particolare industria ha creato le condizioni favorevoli per la nascita di altre attività.
Krugman racconta il caso emblematico di Rochester (New York). La città nacque come mulino ̶ grazie al canale Erie ̶ e come sede di vivai e deposito di semi. Poi, nel 1853, John Jacob Bausch, un immigrato tedesco, avviò una compagnia di monocoli e diventò il maggior produttore di occhiali, microscopi e di tutto ciò che fosse collegato alle lenti. Così Rochester divenne un polo di esperti di ottica, creando probabilmente le condizioni per la nascita di Eastman Kodak prima e di Xerox poi. La storia di Rochester è tipica delle piccole città industriali: ciò che veniva prodotto anche quarant’anni fa poteva essere diverso e apparentemente scollegato da ciò che veniva prodotto, diciamo, alla fine dell’800. Una serie di mercati esterni di solito creavano le condizioni perché la città si avvantaggiasse di nuove tecnologie e opportunità economiche. Ovviamente questo era un processo rischioso. Alcune industrie localizzate creavano il terreno fertile perché nuove industrie le sostituissero, ma altre potevano finire su un binario morto. E mentre una grande città può sopportare che molte attività finiscano nel nulla, una piccola non può. Alcuni centri, più fortunati di altri, si sono ripresi e sono cresciuti, ma altri non ce l’hanno fatta. In pratica, quando una piccola città comincia, lentamente, a crescere e specializzarsi, sul lungo periodo ci sono buone probabilità che, nel processo di nascita e fallimento della sua industria, perda a testa o croce un numero di volte sufficiente da non essere più in grado di riprendersi. Così una piccola città esaurisce la sua ragione d’esistere.
Va detto che, secondo Krugman, alcune città erano a maggiore rischio di fallimento di altre, ad esempio dopo inverni particolarmente difficili. Altre, invece, potevano essere più protette dal fallimento grazie alla presenza di un college o dall’essere meta d’immigrazione. Ad ogni modo, sembra sensato pensare al destino di un piccolo centro urbano come un processo casuale fatto di successi e sconfitte in cui, prima o poi, è probabile che la cittadina conosca la rovina del giocatore.
Le riflessioni del premio Nobel nascono in risposta a un recente articolo di Emily Badger, giornalista americana esperta di città e politiche urbane. In quest’articolo si analizza la crescita delle metropoli americane e di come il loro sviluppo si autoalimenti a discapito dei centri minori. La tesi di Badger, è che le città globali, come sono state definite da Saskia Sassen, sociologa dell’università di Chicago, abbiano più bisogno di città simili nel resto del mondo che dei piccoli centri nel loro territorio. In altre parole, New York ha più bisogno di Londra e meno di Bethlehem in Pennsylvania. In passato le grandi città crescevano nutrite dai piccoli centri che avevano intorno, mentre oggi le città globali si sostengono l’un l’altra. Più crescono le connessioni tra una città globale e l’altra e più si indeboliscono i legami con i piccoli centri, geograficamente vicinissimi, ma lontani dal punto di vista economico e sociale. Lo spostamento da un’economia basata sulla manifattura e sull’industria ad una basata sul digitale e sui servizi favorisce enormemente le megacittà. I programmatori beneficiano della vicinanza di altri programmatori, le grandi aziende trovano con facilità le persone di cui hanno bisogno per affrontare il mercato globale: contabili esperti in fisco asiatico, avvocati che conoscono la legislazione europea, addetti al marketing che comprendono il mercato dell’America latina. Le compagnie che producono beni tangibili hanno spostato la produzione all’estero, a danno della produzione locale. Tutto questo ha un doppio risultato: da un lato le grandi città prosperano, portando benefici in termini di servizi, innovazione e concorrenza al cittadino newyorkese; dall’altro l’abitante di Bethlehem in Pennsylvania subisce un costo in termini di esclusione sociale ed economica.
Le conclusioni di Krugman sono diverse, ma non necessariamente in contraddizione con quelle di Badger. Il processo casuale da lui descritto non è direttamente collegato con la globalizzazione: il declino e la caduta delle piccole città lo avremmo visto in ogni caso, forse più lentamente, anche senza un mercato globale.
Ci sono delle implicazioni politiche? Forse. Ci sono dei costi sociali non ben definiti nel lasciare che le piccole città implodano, e la questione si pone soprattutto per chi si occupa di politiche di sviluppo regionale e tenta di preservare la vitalità dei piccoli centri. La strada però è in salita: in un’economia moderna sempre più slegata dai beni materiali, le piccole comunità esistono per ragioni storiche che, prima o poi, perdono comunque il loro valore.
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