I prioni sono i veri responsabili della sindrome di Alzheimer?
Secondo uno studio pubblicato su Science Translational Medicine, l’insorgenza dell’Alzheimer sarebbe collegata all’azione dei prioni, agenti infettivi di natura proteica
Secondo uno studio condotto da un team di scienziati dell’università della California, alla base della sindrome di Alzheimer ci sarebbero i prioni, agenti infettivi non convenzionali di natura proteica già noti per essere la causa di una serie di malattie in diversi organismi. I prioni, in particolare amiloidi e tau, che causano queste malattie sono in realtà la forma mutante e mal ripiegata di una proteina prodotta naturalmente in molte specie di mammiferi, la proteina prionica o PrP. Una proteina una volta mutata è in grado di danneggiare pesantemente il nostro cervello.
La scoperta, a detta degli autori, potrebbe rivelarsi un vero punto di svolta nella ricerca di una cura contro l’Alzheimer: infatti finora si credeva che la vera causa dell’Alzheimer soltanto la fase finale dell’amiloide beta e tau. Per meglio dire, le persone affette da sindrome di Alzheimer hanno cervelli pieni di depositi rigidi, raggruppanti delle proteine beta amiloide e tau, chiamate placche. È stato a lungo ipotizzato che se siamo in grado di bloccare o rompere questi depositi, possiamo ritardare o addirittura impedire l’Alzheimer. Ma questa teoria non ha avuto gli effetti sperati nel corso degli anni.
Durante il loro esperimento, gli studiosi hanno confrontato il cervello di 100 pazienti morti a causa dell’Alzheimer o di demenza simile con cervelli di persone sane: al termine dell’analisi sono state trovate prove evidenti di prioni amiloidi e tau diffusi in tutto il cervello, proprio come i prioni classici. E’ stato anche scoperto che i livelli di entrambi i prioni diminuivano in età adulta: gli ultraottantenni avevano un livello più basso di prioni, in confronto alle persone più giovani che morivano con una forma ereditaria di morbo di Alzheimer.
“Questa è solo la punta dell’iceberg e desideriamo espandere questa ricerca a diverse centinaia di migliaia di casi”, ha detto Carlo Condello, autore principale della ricerca. Condello ha poi ipotizzato che “le persone che sopravvivono più a lungo hanno una genetica che rende il loro cervello in grado di spingere i prioni tossici in placche e grovigli in confronto a coloro che sono morti giovani. O forse, ci sono diverse forme di prione di amiloide e tau che possono modellare il decorso della malattia in modo diverso”.
Inoltre, Condello e il suo team vogliono definire meglio la malattia di Alzheimer e altri disordini neurologici strettamente legati a proteine anormali, come il Parkinson, per iniziare a catalogarle come “malattia da prioni” espandendo anche la definizione stessa di prione che dovrebbe includere amiloide, tau e qualsiasi altra proteina prodotta naturalmente in grado di cambiare forma e autoreplicarsi.
Gli scienziati, infatti, hanno trovato anche altre proteine in funghi, mammiferi e lumache marine che assomigliano a PrP: a differenza del cattivo PrP, queste proteine non sembrano causare malattie ma al contrario giocano un ruolo benefico nella sopravvivenza dei loro ospiti, per esempio nelle persone aiutano a formare ricordi a lungo termine.
La ricerca, pubblicata su Science Translational Medicine, è basata sugli studi del neurologo e biochimico Stanley B. Prusiner, il cui lavoro (premiato con il Nobel nel 1997) aveva individuato nei prioni la causa di un’intera classe di disturbi cerebrali rari ma universalmente fatali, come la malattia di Creutzfeldt-Jakob. Stanley Prusiner, ora direttore del Istituto UCSF per le malattie neurodegenerative, ha affermato: “Credo che questo dimostri che beta amiloide e tau sono entrambi prioni, e che la malattia di Alzheimer sia un disturbo a doppio prione in cui queste due proteine canaglia distruggono insieme il cervello”, aggiungendo che “Il fatto che i livelli dei prioni appaiano anche legati alla longevità dei pazienti dovrebbe cambiare il modo in cui pensiamo al futuro per lo sviluppo di trattamenti per la malattia. Questo documento potrebbe catalizzare un cambiamento importante nella ricerca dell’Alzheimer”.
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