Misurare, misurare, misurare: il mantra di Renato Dulbecco
Essere curiosi e avere sin da giovani un grande disegno in mente: questo il segreto dell’uomo che ha trasformato la sua ossessione per la misurazione nell’inizio della battaglia contro il cancro
Occhiali spessi, neri come il colore della corona di capelli che gli circonda la testa. Renato Dulbecco, serio e composto, indossa un camice dello stesso punto di grigio delle pareti del laboratorio. Mimetizzandosi con i muri del Salk Institute for Biological Studies di La Jolla, California, sembra un ricercatore anonimo, solitario, uno come tanti altri. Tra i suoi bidoni di reagenti, i porta-provette di plastica e le pipette, conduce i suoi esperimenti passando con minuzia da una piastra Petri all’altra. Con scotch di carta e pennarello nero etichetta barattoli contenenti chissà quali soluzioni che forse serviranno a cambiare il mondo. Questo è ciò che avremmo visto quarant’anni fa spiando il padre della ricerca sul cancro a lavoro nel suo laboratorio: un pugno di preziosi e introvabili momenti che il documentario del Salk Institute su Renato Dulbecco restituisce fedelmente.
È incredibile pensare che in uno di quei laboratori, così retrogradi e antiquati rispetto agli standard odierni, Renato Dulbecco abbia affinato le sue ricerche sull’attività dei virus, iniziate al California Institute of Technology (Caltech) nel 1949. Proprio al finire degli anni Quaranta, infatti, Max Delbrück, premio Nobel per la medicina 1969, gli offrì di unirsi al suo gruppo di ricerca.
La prima cosa che Dulbecco fece quando fu assunto al Caltech fu montare in macchina e iniziare a guidare. Il suo fu però un coast-to-coast tutto particolare. Visitò, infatti, i migliori laboratori americani per apprendere tutto ciò che avrebbe potuto aiutarlo a realizzare il suo desiderio più grande, un sogno che covava sin da giovane: trovare un metodo di misurazione che garantisse un approccio quantitativo anche al mondo microscopico della biologia.
Il chiodo fisso di quantificare quello che non poteva essere visto a occhi nudi aveva radici antiche. In un’intervista registrata nel 1984 nell’ambito del Progetto Cultura del Gruppo Montedison, infatti, è lo stesso Dulbecco a rivelare le origini della sua visione:
«Già da ragazzo sapevo bene che cosa volevo fare. Mi resi conto che la preparazione medica non era effettivamente sufficiente per fare della biologia, e così mi sono indirizzato alla fisica», in particolare alle radiazioni. La speranza era stata di poter un giorno misurare, per esempio, quanto è grande un gene, per poi scoprire che cosa è un gene, e con la fisica e le radiazioni il gene si poteva misurare.
Per indagare l’infinitamente piccolo dei geni Dulbecco aveva conseguito in Italia una laurea in medicina e una in fisica e ora, nella terra promessa dei ricercatori, quell’America dove le attrezzature scientifiche erano le migliori, cercava di tener fede alle sue aspirazioni.
Di ritorno dal suo viaggio tra i laboratori americani mise insieme tutto ciò che aveva appreso, unendovi le nozioni maturate negli anni universitari e le conoscenze apprese dal 1947 al 1949, due anni passati a studiare i virus col biologo Salvatore Edoardo Luria. Il sogno era a portata di pinzetta. Dulbecco riuscì a mettere a punto un sistema per «misurare» i virus, in particolare i batteriofagi che uccidevano i batteri. Fu la svolta.
Ma anche la fortuna fu dalla sua: una donazione privata al Caltech gli consentì di passare dallo studio dei virus che infettavano i batteri allo studio dei virus che attaccano le cellule animali. Grazie alle ricerche iniziate al Caltech, Dulbecco aveva scoperto il meccanismo molecolare di interazione tra i virus oncogeni e le cellule animali, e che il materiale genetico del virus s’inserisce nel DNA della cellula infettata. Le alterazioni di questo tipo sono permanenti, infatti, tutte le cellule generate dalla cellula infetta mantengono la sequenza virale nel loro DNA. Questa alterazione, invece di uccidere la cellula ne causa la proliferazione e quindi il tumore. Queste scoperte valsero a Renato Dulbecco, insieme al biologo David Baltimore e al virologo Howard M. Temin, il Nobel per la medicina nel 1975 per le loro scoperte in materia di interazione tra virus tumorali e materiale genetico della cellula.
Misurare, misurare, misurare. Renato Dulbecco ce l’aveva fatta, ma a quale prezzo? La lontananza dall’Italia, soprattutto.
Proprio ascoltandolo pronunciare quella parola, «misurare», oppure quando articolava altri termini da ricercatore, come «sperimentale» o «laboratorio», quella lettera «r» che gli si arrotolava morbidamente sul palato lo faceva sembrare un americano che parlava squisitamente bene l’italiano, e non un italiano che aveva vissuto molti anni all’estero, sessantacinque per l’esattezza.
Quella lunga permanenza fu spezzata solo in due occasioni: la prima nel 1992, quando Dulbecco intraprese una serie di spole lavorative con l’Italia, e la seconda nel 1999, quando accanto a Fabio Fazio e Laetitia Casta presentò il Festival di Sanremo.
L’essenza della vita di un uomo, per quanto grande egli sia, è cosa assai difficile da intendere, ma ascoltando i ricordi dello stesso Dulbecco in una delle sue ultime e più toccanti interviste o leggendo tra le righe delle parole di chi lo ha conosciuto davvero, potremmo forse farcene un’idea.
Il collega e amico Walter Eckhart, professore emerito di biologia cellulare e molecolare, dipinge con pochi tratti l’essenza del gigante della biologia: «È stato entusiasmante lavorare incessantemente giorno e notte con lui su esperimenti che hanno dato vita all’idea che i geni potessero essere determinanti nel provocare il cancro. A quel tempo molti di noi non hanno capito la grandezza di quello che stavamo vivendo. C’era molto da conoscere e da scoprire. Dulbecco era un mentore meraviglioso. Era sempre in anticipo nel suo tempo. Aveva come un grande disegno nella mente».
E di grandi disegni Dulbecco doveva essere davvero un esperto. Infatti, con un suo scritto apparso sulla rivista «Science» nel 1986, sostenne che il modo migliore per capire il cancro sarebbe stato sequenziare l’intero genoma umano. Non a caso fu tra i primi a manifestare il suo entusiasmo per il Progetto Genoma Umano, iniziato nel 1990 e completato nel 2003.
Credits immagine: The National Foundation March of Dimes
Commenti recenti