Una sapiente pop star
Mercoledì 22 novembre, se n’è andato, un po’ all’improvviso, Roberto Argano, Zoologo, Professore Ordinario del nostro Ateneo. Biologo e naturalista di primissimo ordine, specialista di crostacei isopodi, era conoscitore profondo della Zoologia tutta. I suoi racconti dell’epopea delle campagne di raccolta in giro per il mondo, hanno affascinato i suoi allievi: quella verve esplorativa e avventurosa (le grotte in Messico, le isolette sperdute delle Filippine, Socotra….) era solo apparentemente di stampo ottocentesco, mentre era in realtà rivolta al futuro con la raccolta di campioni che sarebbero poi stati usati (e lo sono tutt’ora) in genetica di popolazioni e filogenetica molecolare, per rispondere a modernissime domande di biologia evoluzionistica.
Ma il lascito che Roberto lascia più chiaro è certamente rappresentato dal segno indelebile che ha sempre inciso, profondo, in chiunque ascoltasse anche solo una delle sue lezioni di Zoologia. Generazioni di studenti di biologia che hanno assistito ai suoi corsi hanno subito travolgente il fascino di un talento innato per la didattica e la comunicazione, coltivato costantemente, e nutrito da un’avidità continua per il sapere, la conoscenza, la cultura tutta. Ha sentito la responsabilità individuale e sociale del ruolo di ‘Professore’, in maniera profonda, e non solo in università: è sempre stato attore importante di corsi di formazione per insegnanti delle scuole primaria e secondaria. Questo senso di responsabilità, per il privilegio di un ‘mestiere’, quello del ricercatore e docente universitario, che lui chiamava la sua meravigliosa avventura di vita, appartenga a tutti quelli che restano, soprattutto ai più giovani.
L’Università sta rincorrendo i cambiamenti profondi cui va soggetta la società italiana praticamente in tutti i suoi settori, ad una velocità senza precedenti. E così ci si chiede, tra l’altro, quale debba essere il nuovo ruolo dei docenti universitari in questa accademia che muta. Si guarda perciò in avanti, alla ricerca, sulla linea dell’orizzonte, di punti di riferimento, di fari che indichino la rotta da seguire. Si guarda invece poco indietro; ci si aspetta, ragionevolmente, che la luce provenga dalle nuove generazioni, da quei giovani che sono anche gli attori dei cambiamenti, e si corre il rischio di dimenticare le saggezze e le esperienze di chi questa università ha contribuito a costruirla, nel bene e nel male.
Alcuni giorni fa, in un pomeriggio caldo di un novembre atipico (moderno?), ci ha lasciati Roberto Argano, zoologo, profondo conoscitore della materia su cui ricercava, ma soprattutto, grande docente, amatissimo da studenti e studentesse, e riconosciuto come tale da chiunque lo avesse ascoltato anche solo una volta tenere una lezione o disquisire di metodologie didattiche. Roberto aveva un talento innato per la didattica e la comunicazione, di quei talenti con cui si nasce, e che ti condannano a vita ad affascinare chi abbia la (s)ventura di starti ad ascoltare. Lui poi ha costantemente coltivato e nutrito il suo talento con un’avidità continua per il sapere, la conoscenza, la cultura tutta. Ha sentito la responsabilità individuale e sociale del ruolo di ‘Professore’, in maniera profonda. Richiamava sempre per il docente universitario, il dovere di indirizzare gli studenti a “metter fuori la testa dalla quotidiana fanghiglia dei luoghi comuni, ad acquisire concetti e linguaggi relativi ad un vero universo di fatti e di idee portati alla luce della nostra comprensione da migliaia di persone che hanno trascorso l’esistenza nei luoghi della Ricerca”. E così lui, cresciuto e formatosi in una zoologia naturalistica che oggi ci sembra ottocentesca, fatta di avventurosi viaggi esplorativi e di raccolta, e lunghe sessioni di studio dei campioni museali, aveva dato spazio alle metodologie nuove, all’uso di tecnologie moderne, vedendo e capendo l’importanza del tenersi al passo con lo sviluppo e l’innovazione. Purtuttavia, intuiva la duplice necessità, in questo approccio moderno all’inventario della biodiversità, da una parte di mantenere e ravvivare il corpus di conoscenze tradizionali, e dall’altra di implementare le innovazioni tecno-metodologiche, che solo integrate avrebbero potuto portare alla rivoluzione conoscitiva e culturale che ancora non sembra completamente avviata.
Non sopportava il clima di competizione (il regime competitivo lo definiva) che si è venuto ad instaurare nell’accademia, e che lui attribuiva all’incertezza annosa di una crisi perenne: lo stillicidio continuo, negli ultimi decenni, di cambiamenti strutturali e amministrativi dell’università privi di alcuna certezza prospettica. Sorrideva amaramente della pubblicità di una università telematica che aveva come motto “sapere per vincere”. La guardammo ogni giorno per qualche mese, andando a pranzo, e lui immancabilmente diceva: “Sapere per vincere??? ai miei tempi si diceva Sapere per vivere” con tutto quello che ne deriva in termini di diritto allo studio per tutti, non solo per pochi destinati ad essere vincitori. Temeva giustamente che trasformare anche la vita del ricercatore/docente universitario in una continua gara, nella continua ricerca di una strategia contro, contro tutto ma più che altro contro tutti, avesse ben poco a che fare con la Cultura, ma fosse l’adeguamento del sistema accademico ad un mondo moderno sempre più basato sulla competizione, sulla paura di non farcela, sul peso spesso acriticamente vincente delle tecnologie. E così, i giovani sono portati a seguire la traccia competitiva, cercando di pubblicare “molto e bene” (che in sé non sarebbe sbagliato) ma a prescindere dal fatto che quello che si pubblica sia di interesse in sé: la ricerca (soprattutto quella di base) non più come guidata dalla curiosità intellettuale del capire, ma dalle leggi competitive del mercato dei concorsi, dei finanziamenti, della carriera……
Perciò questa università che rincorre i tempi che cambiano gli piaceva poco: aspirava ad un’accademia che fosse attrice prima del cambiamento, guida intellettuale del progresso, e non un insieme di competitors che tentano di rubarsi a vicenda gli studenti e le risorse in una lotta continua. E credeva che Sapienza fosse in grado di avere un ruolo guida in questo processo. È sempre stato orgoglioso di essere un docente di Sapienza. “Un docente universitario è come un albero” – usava raccontare – “con forti radici di conoscenza ottenuta non solo rimasticando il sapere di altri ma avendo voce in prima persona nelle discipline in cui lavora; il tronco del partecipare alla quotidiana gestione della collettività universitaria di cui fa parte; la chioma, con le occasionali fioriture di idee, costituita dai corsi che tiene, le esercitazioni che organizza, le tesi di laurea che segue. Sapienza è la più grande, bella e ricca foresta di saperi”.
Marco Oliverio, zoologo e direttore del dipartimento di biologia e biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza università di Roma
L’ho conosciuto e mai (s)ventura fu più gradita.