Salvatore Quasimodo: il mestiere di un fragile poeta
Vita e debolezze di uomo che non fu sorpreso di ricevere il Nobel per «aver espresso la tragica esperienza di vivere nel nostro tempo»
Raccontava di sé che avrebbe voluto fare l’ingegnere, ma in realtà risulta che nel 1920 fosse iscritto alla facoltà di Matematica e Fisica, che per altro abbandonò presto. A quell’epoca, ventenne, Salvatore Quasimodo aveva invece già scritto le sue prime poesie e fondato il “Nuovo Giornale Letterario” con i compagni dell’istituto tecnico: aveva insomma già preso la strada che lo avrebbe portato trent’anni dopo al Nobel per la letteratura. Ma il suo percorso era solo all’inizio.
Dopo aver abbandonato gli studi scientifici, Quasimodo si spostò a Roma, secondo alcuni scappando di casa, secondo altri cacciato dal padre. Tuttavia portò sempre con sé il ricordo del brullo paesaggio siciliano che aveva lasciato: Modica, dove era nato nel 1901, poi Gela, Licata, Palermo, Roccalumera e Messina, in cui si trovava il giorno del terremoto che la sconvolse nel 1908. Aveva esplorato la Sicilia in lungo e in largo, seguendo i frequenti trasferimenti del padre ferroviere.
A Roma visse brevemente “randagio” nei pressi di piazza Navona prima di trovare lavoro come disegnatore tecnico, poi come commesso alla Rinascente e infine in un ferramenta. In un bar incontrò Bice Donetti, la cassiera, una donna più matura di lui e di cui pare che Quasimodo si vergognasse perché semi-analfabeta, ma che fu sua moglie fino alla morte di lei, nel 1946. Pur essendo sposato ebbe diverse storie extraconiugali, delle quali la più chiacchierata con Sibilla Aleramo: qualcuno insinuava persino che la fama della scrittrice, più grande di lui di venticinque anni, fosse l’unica ragione lo che spingesse a frequentarla.
Infatti, assieme a quello burrascoso per le donne, Quasimodo era roso dal desiderio di acculturarsi. A rispondere a quest’ansia pensò per primo monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, che gli insegnò il greco e il latino, e che certo non immaginava che un giorno le traduzioni dei lirici greci di quel ragazzo sarebbero finite su tutti i libri di scuola.
Quasimodo ne doveva però passare ancora molte per potersi guadagnare da vivere con la letteratura, e aspettare il 1941 perché gli offrissero una cattedra di lettere presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Mantenne l’impiego anche dopo aver ricevuto il consistente assegno della Fondazione Nobel, e insegnava ancora nel 1968, quando morì di ictus mentre presiedeva un premio di poesia ad Amalfi.
Prima di allora aveva fatto il geometra, sempre a Milano, dove si era trasferito nel 1926, dopo aver vinto un concorso al Genio Civile. Anche qui purtroppo Quasimodo non navigava nell’oro (si racconta che dividesse il cappotto con un amico), ma se non altro la stabilità lavorativa gli permise di dedicarsi alla ricerca poetica. Negli anni Trenta, inserito nell’ambiente letterario dal cognato Elio Vittorini, fu influenzato dai poeti ermetici, che come lui rifiutavano la dilagante retorica fascista. Come scrisse poi nella sua Nobel lecture Il poeta e il politico: «Il politico, verbalmente, sostiene la cultura, ma in realtà tenta di ridurne la potenza: il suo scopo non è altro in ogni secolo che quello di togliere tre o quattro libertà fondamentali all’uomo, affinché esso continui, in questo suo eterno cerchio, a riprendere ciò di cui è stato saccheggiato».
È proprio in questo periodo che, forte del successo delle sue prime pubblicazioni, Acque e terre e Oboe sommerso, lasciò l’impiego statale per seguire la sua musa. E in questi anni nacquero anche i suoi due figli, Orietta nel 1935 da Amelia Spezialetti, e Alessandro nel 1939 dalla danzatrice Maria Cumani, che sposerà dopo la morte della prima moglie.
Di lì a poco scoppiò la Seconda guerra mondiale: Quasimodo non partecipò alla Resistenza, ma continuò a scrivere e a tradurre, inoltrando persino una supplica a Mussolini «perché gli venisse assegnato un contributo per potere proseguire l’attività di scrittore». Un episodio che lo rese malvisto da intellettuali e partigiani.
La guerra incise comunque sulla sua poetica, tanto che la raccolta del 1947 Giorno dopo giorno fu considerata una svolta verso la poesia civile, termine che Quasimodo non amava, pur definendosi di sinistra ed essendosi iscritto al PCI per un breve periodo.
Secondo la sua ultima amante, la poetessa Curzia Ferrari, fu sdoganato come comunista ma era piuttosto un “francescano”, perché stava dalla parte della povera gente: «né a destra né a sinistra, ma su una sponda dove esiste solo la giustizia». Del resto povero era stato, e non era ateo: anzi raccontò in un’intervista che tradurre dal greco il Vangelo secondo Giovanni era stata per lui un’esperienza di ricerca personale.
Quando nel 1959 gli venne assegnato il Nobel, Quasimodo fu intervistato da una troupe televisiva. Nel video, baffetti impomatati, legge con voce monocorde una poesia su richiesta del giornalista, poi dichiara: «Non posso dire di essere sorpreso di questo premio, ma mi dà fiducia nelle sorti della civiltà moderna». Non solo non esulta, ma resta impassibile. Eppure la stessa Curzia Ferrari racconta di lui come di un uomo passionale e geloso, fragile, che teneva molto al suo aspetto e che mostrava al fruttivendolo gli articoli di giornale che lo riguardavano, anche dopo il Nobel e due lauree ad honorem, una dall’Università di Messina nel 1960 e una da Oxford nel 1967. Un’immagine inconciliabile con quella nel video, che non collima neanche con quella del perfezionista che cambiò l’accento sul proprio cognome (da Quasimòdo a Quasìmodo).
Forse nascondeva le proprie debolezze per rispetto verso il proprio mestiere, un ruolo che riteneva sacro: quello del poeta. Da Il poeta e il politico: «La lealtà della poesia si delinea in una presenza che è fuori dall’ingiustizia e dall’intenzione della morte. Il politico vuole che l’uomo sappia morire con coraggio, il poeta vuole che l’uomo viva con coraggio».
Credits immagine in evidenza: il Post
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