“Sapere aude!”
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di Erika De Fazio
Quasi ironico come la lettura di un necrologio dalle tempistiche sbagliate abbia portato all’istituzione di un premio che oggi rappresenta l’ambizione di molti esperti in campi diversi.
Il premio Nobel, infatti, venne creato solo dopo che, alla morte del fratello di Alfred Nobel, celebre inventore della dinamite, un giornalista francese scambiò le identità e scrisse un crudo e severo articolo intitolato “Le marchand de la mort est mort” (Il mercante della morte è morto).
Albert risultò fortemente costernato dalla lettura del suo necrologio e, assicurandosi che un fidato collaboratore eseguisse i suoi desideri post mortem, si apprestò a redigere un testamento in cui investì il suo patrimonio nell’assegnazione di premi a persone che, durante l’anno precedente alla sua morte, avrebbero contribuito al benessere dell’umanità.
Divise i fondi per cinque diversi ambiti: la medicina, la fisica, la chimica e la letteratura assegnati in Svezia e, infine, la pace assegnato in Norvegia.
La morte, quindi, portò alla valorizzazione di persone che, in un modo o nell’altro, riuscirono, e tuttora riescono, a fare la differenza, di gente che s’impegna per dare valore al tempo, irrimediabilmente fugace e inalienabile.
Allo stesso modo, la morte fu ispirazione per l’eccellenza calabrese Renato Dulbecco. La scomparsa di un suo caro amico per via di una grave malattia, infatti, influenzò la scelta di una carriera destinata a diventare titanica.
Renato nacque in Calabria nel 1914 e a soli cinque anni si trasferì in Liguria. A Porto Maurizio trascorse un’infanzia serena, ricca di stimoli provenienti dai suoi genitori. Dulbecco, infatti, ricordò durante un’intervista:
“I miei genitori versavano nel mio cervello di bambino un mucchio di cose nuove, un concime ricco che forse favoriva il proliferare di quelle cellule nervose che, a giudicare dalle dimensioni della testa, possedevo in grande quantità”.
Nel 1930 iniziò gli studi alla facoltà di Medicina e Chirurgia a Torino e nel 1936 si laureò sostenendo una tesi sulle alterazioni del fegato dovute al blocco nell’efflusso della bile. Il suo percorso universitario fu brillante: nel corso dei sei anni fu ammesso all’Istituto di Anatomia dal professor Giuseppe Levi, dove conobbe Salvator Luria e Rita Levi Montalcini.
Renato possedeva quella consapevolezza, curiosità e mente brillante che, insieme al sostegno continuo che ricevette nel corso degli anni, probabilmente lo spinsero all’inarrestabile ricerca. A tal proposito affermò:
“La medicina mi attraeva: a parte il connotato romantico dello zio chirurgo, avevo costatato quanto fosse imperfetta e quanto ci fosse ancora da fare. Inoltre era un campo che m’incuriosiva più di altri, proprio perché ne sapevo poco”.
Lo stesso anno della sua laurea dovette lavorare come medico militare fino al 1938 e dopo poco fu richiamato alle armi a Sanremo. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra e Renato fu costretto ad andare a combattere prima sul fronte francese e poi in Russia. Nel 1943 finalmente riuscì a tornare in Italia.
Continuò a lavorare con Giuseppe Levi e fu in questo periodo che s’interessò all’effetto delle radiazioni sulle cellule embrionali di pollo, ma si rese conto di non sapere molto di quel campo e decise di studiare fisica all’università di Torino, terminando gli studi solo due anni dopo.
Nel 1943 rese propri gli ideali della Resistenza e si unì ai gruppi partigiani antifascisti.
Nel 1947 si trasferì negli Stati Uniti con Salvator Luria per lavorare nel suo laboratorio e restò nell’Indiana per molto tempo, tanto da ottenere anche la cittadinanza americana.
Il suo lavoro in questi anni fu straordinario: nel 1955 riuscì a identificare un mutante del virus della poliomielite, ponendo così delle importanti e solide basi per la creazione del vaccino ad opera di Albert Sabin.
Nel 1960 si concentrò sul campo oncologico, riuscendo a dimostrare che, nel momento in cui si contrae un virus, i suoi geni s’insediano nei cromosomi dei pazienti infetti e possono rimanere inattivi per un certo periodo. Una volta riattivati, però, possono causare gravi malattie, tra cui i tumori. L’alterazione della cellula quindi è permanente, poiché i virus animali non provocano la morte delle cellule, ma una modifica. Fu per questa geniale scoperta che quindici anni dopo venne insignito del premio Nobel.
Continuò per quattro anni, dal 1972 al 1976, i suoi studi nel ramo oncologico all’Imperial Cancer Research Fund a Londra, per poi tornare negli Stati Uniti.
Dedicò l’ultimo ventennio della sua vita nella realizzazione del suo progetto su scala internazionale di mappatura e sequenziamento del genoma umano.
Nel 2012 morì in California a causa di un infarto.
Sono assolutamente indiscutibili l’intelligenza e le conoscenze di Renato Dulbecco, ma è altresì evidente che il genio assiomatico sarebbe potuto rimanere incompiuto se non fosse stato per il supporto delle persone cui teneva e che credevano in lui. Riguardo a ciò disse:
“I miei lavori negli anni sono stati fortemente influenzati dalle persone con cui ho lavorato. Giuseppe Levi mi ha insegnato il valore essenziale dello spirito critico nel lavoro scientifico, Rita Levi Montalcini mi ha aiutato ha mettere a fuoco i miei obiettivi in ciascuno stadio, Salvador Luria mi ha introdotto allo studio dei virus; Herman Muller alla University of Indiana mi ha insegnato la genetica; Max Delbrück mi ha aiutato a comprendere il metodo scientifico e gli obiettivi della biologia e Marguerite Vogt ha contribuito alla mia conoscenza delle culture cellulari animali. Ma, forse più importante di tutto ciò, è stata l’interazione negli anni con il gruppo in continuo cambiamento di giovani ricercatori che ha modellato il mio lavoro”.
Per contribuire al benessere dell’umanità, in effetti, sono diversi gli elementi imprescindibili e tra quelli essenziali c’è la presenza di persone che credano nel potenziale che ciascuno ha, di amici che siano di sostegno anche quando viene a mancare la fiducia verso se stessi.
Non resta, allora, che imparare da chi ha osato, come Kant fare propria la frase di Orazio “Sapere aude”, (“Abbi il coraggio di conoscere”) e trovare buoni compagni di viaggio.
E’ assolutamente necessario orientarsi al di fuori di ogni dogma, trovare nel proprio cuore l’audacia di indagare su ciò che non si conosce e che per natura potremmo temere, fare propria la conoscenza del mondo e non avere paura di rimescolare le carte se necessario.
Solo così si potrà morire sapendo di aver vissuto davvero, solo scoprendo mondi nuovi si migliorerà la visione di un futuro altrimenti catastrofico.
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