Storie intra-enti

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Determinazione, entusiasmo e giuste collaborazioni. Sono queste le chiavi per ottenere una ricerca di successo secondo Maria Grazia Giansanti, genetista, Primo ricercatore CNR e capo laboratorio presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie della Sapienza. Con lei parliamo anche della ricerca sulle malattie causate da difetti nella glicosilazione legati a mutazioni nel  geneCOG7 e sull’uso Drosophila melanogaster come organismo modello nella ricerca di una cura. Ma anche dei segreti per essere un bravo mentore. 

Qual è la scoperta che l’ha entusiasmata di più durante la sua carriera di ricercatrice?

Quando abbiamo lavorato su COG7, un gene implicato nelle malattie dovute a difetti nella glicosilazione. La glicosilazione è un processo enzimatico importantissimo perché porta a una modificazione della struttura delle proteine fondamentale per il loro ripiegamento che ne determina il funzionamento. Ad esempio, a livello del sistema nervoso questo processo influenza l’attività neurologica delle proteine stesse. Telethon ci ha finanziato un progetto sullo studio di COG7 e di una sindrome genetica del neurosviluppo legata a mutazioni in questo gene. Si tratta di un difetto congenito della glicosilazione che causa la morte precoce, intorno ai 2-3 anni di vita, dei bambini. Da madre, mi ha entusiasmata lavorare per fare qualcosa per questa malattia. Abbiamo scoperto  che potevamo utilizzare la Drosophila melanogaster (ndr. un organismo modello) per trovare una possibile cura alla malattia. Infatti, attraverso questo organismo potevamo riprodurre i difetti presenti nei malati tra cui quello di glicosilazione e potevamo indagare sulle possibili interazioni genetiche con altri geni della pathway e trovare così possibili vie per una cura. Recentemente su questo studio abbiamo ricevuto un finanziamento dal Ministero dell’Università e Ricerca come progetto Prin (ndr. Progetti di rilevante Interesse Nazionale) in collaborazione con il gruppo di Milano del Prof. Thomas Vaccari. Loro lavorano su Snap29, una proteina che interagisce con la nostra Cog7. Insieme sono coinvolte nel traffico vescicolare e nella localizzazione di enzimi che sono coinvolti nella glicosilazione. Secondo me gli studi della glicosilazione e più in generale della glicomica

apriranno la strada a nuove terapie di patologie congenite e tumorali.  

Secondo lei qual è la ricetta per ottenere la migliore scienza?

Come prima cosa bisogna essere flessibili e capire che non si può rimanere sempre sullo stesso progetto perché la ricerca richiede un continuo cambiamento. Io stessa nei primi anni lavoravo sulla divisione cellulare e dopo ho cambiato area di ricerca. Non bisogna rimanere fossilizzati in un tipo di progetto ma capire dove ti sta portando la scoperta ed evolvere di conseguenza.

Poi un altro aspetto essenziale è fare network. Un ricercatore deve riuscire a trovare le collaborazioni giuste con chi ha realmente l’expertise che ti può far raggiungere il risultato. Secondo me infatti un progetto dà sempre dei frutti se le collaborazioni sono quelle giuste e se si ha voglia di trovare un risultato. Un altro aspetto poi è avere l’entusiasmo per quello che si sta facendo e riuscire a trasmetterlo alle persone che lavorano con te.  Ovviamente non è facile. Non trovare il giusto finanziamento, ad esempio, può scoraggiare. Devo dire che in Italia è molto difficile trovare finanziamenti e convincere i finanziatori. Però anche in questi casi è essenziale non perdere mai l’entusiasmo.

Qual è il giusto equilibrio tra il numero di pubblicazioni scientifiche e la loro qualità? 

Bisogna trovare un equilibrio perché non puoi svendere la pubblicazione. Il capogruppo deve intuire quando i dati possono essere pubblicati in una rivista molto buona e quindi aspettare di trovare una storia che convinca la rivista. Ci sono delle riviste che non pubblicano se non hai una storia molto molto complessa e poi secondo me i gruppi italiani vengono considerati un po’ meno da alcune di queste. Io ho fatto scelte che dipendevano molto dalla ricerca che avevo in mano. Ci sono riviste molto buone che non hanno necessariamente un impact factor elevatissimo e che secondo me possono andar bene per una ricerca che magari non è da Cell o da Nature ma che comunque ha un buon pubblico. 

In che modo secondo lei il contesto è cruciale per fare una buona scienza? 

Secondo me andare fuori ti apre la mente e ti fa conoscere nuove realtà. Poi ti dà anche la possibilità di costruire un network di collaborazioni essenziale per un giovane ricercatore. Se non hai fatto un’esperienza fuori dal laboratorio di origine secondo me diventa difficile diventare un buon capogruppo. Io, ad esempio, sono stata a Stanford negli Stati Uniti ma ci sono buoni laboratori anche in Europa. 

Come si integra il CNR nel contesto universitario? 

Noi ricercatori CNR abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto all’interno del dipartimento. Con Sapienza c’è sempre stata una collaborazione molto viva e il rapporto è sempre stato molto fruttuoso e profondo.

Abbiamo la possibilità di fare lezione e all’interno del collegio dei docenti ci hanno sempre invitato a fare seminari. Abbiamo anche la possibilità di seguire e di crescere giovani studenti e dottorandi, penso che questa attività di mentore sia fondamentale per la crescita di un capogruppo. Per questi motivi credo che, come istituto, siamo molto fortunati a essere all’interno dell’università. Avere continuamente un’interazione con le attività dell’università è sicuramente vincente rispetto ad altri istituti che non hanno questa commistione.  

L’AIRC che ruolo ha avuto nella sua ricerca? 

Nel corso del tempo abbiamo ricevuto tre finanziamenti AIRC che sono stati essenziali per il nostro gruppo perché ci hanno consentito di sviluppare una ricerca su GOLPH3, un oncogene, e di far crescere il laboratorio. Grazie al finanziamento AIRC ho potuto finalmente avere un gruppo indipendente e crescere autonomamente come ricercatore. Gran parte delle pubblicazioni sono state proprio sul progetto finanziato da AIRC. L’oncogene GOLPH3 è stato sempre con noi nel corso di questi 10 anni. Si tratta di un gene implicato in moltissimi tumori solidi e nel 2014 abbiamo pubblicato la scoperta che la proteina codificata da GOLPH3 è essenziale per la divisione cellulare perché si localizza nel solco di divisione. GOLPH3 serve per la formazione dell’anello contrattile ossia la struttura cellulare che divide le cellule in due durante la citochinesi, l’ultimo stadio della divisione cellulare. Questa scoperta è importante  perché è stato trovato che le cellule cancerose sono molto più sensibili a difetti nel macchinario della citochinesi. Quindi una possibile strategia per mettere fuori uso le cellule cancerose potrebbe essere proprio quella di utilizzare GOLPH3 e il macchinario della citochinesi che dipende da essa per bloccare la divisione cellulare. Le cellule così non sono più in grado di andare incontro a proliferazione cellulare e quindi potrebbe essere un modo per bloccare la crescita tumorale. Questo è un progetto che stiamo proseguendo eravamo partiti da Drosophila e ora invece stiamo vedendo qual è il ruolo di GOLPH3 nella divisione delle cellule di mammifero. Lo scopo è trovare una strategia per bloccare i tumori si è visto infatti che GOLPH3 è sovraespresso in molte forme tumorali e che la sua sovra-espressione è legata a una prognosi infausta nei pazienti. 

Dal suo punto di vista la ricerca ha impatto sulla società?

Oltre alle malattie pediatriche di cui mi occupo l’invecchiamento ci pone davanti a malattie che sono molto diffuse nella società come i tumori. Studiarne i processi è fondamentale per la società. GOLPH3 ad esempio è implicato nei tumori ma non posso nasconderti che stiamo cercando altri aspetti interessanti. Il traffico vescicolare e la glicosilazione hanno un ruolo fondamentale anche in malattie neurologiche che colpiscono invece le persone anziane come l’Alzheimer e il Parkinson. Quindi il tipo di ricerca che facciamo noi  ha un grande impatto sulla società perché le ricadute anche se si vedranno fra anni saranno sicuramente molto importanti.

Un mentore secondo lei che caratteristiche deve avere?

Un mentore deve saper guidare i propri studenti di dottorato o di post-dottorato. Deve puntare sull’autonomia dei ragazzi e fare in modo che la scelta 

che faranno del proprio futuro non sia influenzata da quello che è il proprio pensiero. Io cerco di fare in modo che il curriculum che si forma durante l’esperienza nel mio laboratorio cresca e che acquisiscano competenze e soft skills tali da essere autonomi. La ricerca non è soltanto saper fare esperimenti ma anche acquisire capacità essenziali se in un futuro vorranno essere a capo di un laboratorio. Un mentore deve stimolare i ragazzi a fare network, a scrivere dei grant, dei papers o delle review in autonomia. Il mentore è una presenza costante, una guida per lo studente e il postdoc che deve essere in grado di capire, senza conflittualità, che cosa si può fare per stimolare il gruppo sia come entità totalitaria che come crescita individuale. Deve saper cogliere quelle che possono essere le problematiche di un singolo individuo all’interno del gruppo e quelle che sono le potenzialità e competenze. È essenziale per un capogruppo capire i momenti di mancato entusiasmo e riuscire a risolverli.  Il leader è un ruolo essenziale ma anche tanto difficile perché è dal capo che nasce tutto, la responsabilità è la sua.

Che consiglio darebbe a un giovane ricercatore che vuole intraprendere questa carriera?

Di non mollare e di mantenere l’entusiasmo. Ma anche di studiare e di leggere gli articoli e gli approcci usati dagli altri ricercatori e di avere la capacità di evolvere nel momento in cui una strategia che ha sempre funzionato smette di funzionare. Se il tuo sogno è fare ricerca la determinazione è la prima qualità. Quindi a un giovane ricercatore dico di non mollare mai, di imparare dai fallimenti e di non abbattersi. Da una sconfitta si può solo risalire.

Maria Grazia Giansanti, biologa e ricercatrice dell’Istituto di Biologia e Patologia Molecolari del CNR-Centro Nazionale delle Ricerche presso il Dipartimento di Biologia e Biotecnologie “Charles Darwin” della Sapienza Università di Roma.