Tra ricerca e innovazione tecnologica: intervista a Daniele Sili
Laureato in ingegneria biomedica alla Sapienza e assegnista di ricerca al Dipartimento di Psicologia, Daniele Sili è tra gli autori di un recente studio pubblicato sulla rivista Scientific Report, che riguarda l’elaborazione di un nuovo sistema di elettrodi per il riconoscimento dei gesti
Un team di ricercatori coordinato da Viviana Betti del Dipartimento di Psicologia di Sapienza, in collaborazione con l’azienda di Roma BrainTrends e l’Università di Padova, ha sviluppato dei sensori a basso costo, realizzabili con una stampante a getto d’inchiostro, per acquisire e analizzare i segnali di elettromiografia di superficie (sEmg). La sEmg è una tecnica non invasiva che consente di misurare l’attività muscolare mediante l’utilizzo di elettrodi posizionati sulla cute.
Approfondiamo con Daniele Sili le applicazioni pratiche di questa nuova tecnologia e il contributo di un giovane talento che si confronta con le tematiche della ricerca e dell’innovazione.
Puoi raccontarci quale è stato il tuo contributo alla ricerca?
Questo studio nasce circa un anno e mezzo fa. Ho approcciato l’elettromiografia durante la mia tesi di laurea, periodo in cui ho conosciuto Viviana Betti, la coordinatrice dello studio, che insegna neuroanatomia funzionale nel Dipartimento di Psicologia di Sapienza. La professoressa dirige inoltre un laboratorio di ricerca nello stesso Dipartimento e l’IRCC Fondazione Santa Lucia di Roma. In quel periodo, aveva avviato una collaborazione con due colleghi dell’università di Padova che si occupano di biosensoristica: Giulio Rosati e Giulia Cisotto, che sono gli ideatori dell’idea di una matrice di sensori per l’elettromiografia semplice da produrre e a basso costo. La professoressa mi ha proposto di curare la progettazione di una matrice di sedici sensori – in realtà sono otto canali bipolari – per l’acquisizione del segnale elettromiografico. Ho curato la progettazione del prototipo in termini di dimensione e di densità dei sensori sul supporto flessibile. A Padova abbiamo acquisito i dati su dodici soggetti, e poi alla Fondazione Santa Lucia di Roma abbiamo fatto l’analisi dei dati e applicato gli algoritmi di machine learning per fare la gesture recognition. Nel frattempo, mi sono laureato con una tesi su questa matrice di sensori e nei mesi seguenti ho continuato a collaborare alla stesura dell’articolo, fino ad arrivare alla pubblicazione.
Facciamo un passo indietro: come è nata la tua passione per la ricerca?
Una volta concluso il percorso universitario sapevo già di voler fare ricerca. Ma avevo dei dubbi sulla scelta di farla in un contesto aziendale o in ambito accademico. Dopo cinque anni di università, la mia esigenza era quella di mettere in pratica tutte le competenze teoriche che avevo acquisito in cinque anni di studio. Ho avuto la fortuna di lavorare fin da subito in un laboratorio multidisciplinare: questo mi ha permesso di interagire con psicologi, neuroscienziati, ingegneri biomedici, informatici e clinici. Il fatto di trovarmi in un ambiente creativo mi ha messo a mio agio e mi ha spinto a continuare a collaborare con la professoressa Betti. Ero affascinato dalla ricerca e dalla scoperta, dal fatto di trovarmi continuamente al limite tra ciò che già si conosce e ciò che nessuno ha mai osservato. Ogni giorno ci si deve alzare con l’aspirazione di poter scoprire qualcosa di nuovo che può cambiare la vita a milioni di persone o ottimizzare le pratiche cliniche.
Parliamo del tuo percorso universitario, come mai hai scelto ingegneria biomedica?
È stata una passione che ho maturato nel mio ultimo anno di liceo, ho avuto un professore di matematica che è riuscito a trasmettermi una grande passione per la matematica e per le materie scientifiche in generale. Inoltre, ero interessato alla biologia e al corpo umano quindi ho cercato di mettere insieme queste due aree: le tecniche ingegneristiche applicate alla biologia e alla medicina. Quando ho trovato l’indirizzo di ingegneria biomedica alla Sapienza mi sono informato sugli sbocchi lavorativi e sugli argomenti che trattava. Mi sono subito appassionato quindi la scelta è stata semplice.
Durante gli studi hai dedicato il tuo tempo anche ad altre attività?
Ho sempre cercato di combinare lo studio con il lavoro ma non ero uno studente che lavorava a tempo pieno. Per quattro anni ho fatto il borsista nei laboratori di informatica “Paolo Ercoli” della Sapienza che si trovano a via Tiburtina e lì ho acquisito nuove conoscenze informatiche. E poi ho sempre praticato sport. Nei primi anni universitari ho continuato con il basket, la mia passione da quando ero piccolo, che ho sempre praticato a livello agonistico. Poi ho dovuto abbandonare per via dello studio che diventava sempre più pressante, ma ho iniziato a dedicarmi al kitesurf che mi lasciava più tempo libero. L’ultimo anno di università ho lavorato anche come cameriere in un ristorante per potermi mantenere e non gravare troppo sulla famiglia.
Di cosa ti occupi attualmente? Puoi raccontarci la tua giornata tipo?
In questo momento oltre a seguire il progetto relativo all’elettromiografia di superficie (sEmg) seguo anche altri due progetti: uno studio legato alla cinematica della mano in contesti naturalistici e, sempre nel laboratorio della professoressa Betti, uno studio di elettroencefalografia ad alta densità (Hd-Eeg) e di risonanza magnetica funzionale (fMri) su 30 soggetti sani legato alle rappresentazioni della mano nel cervello a riposo. In questo periodo sono stato occupato nella fase di acquisizione dei dati sia di Hd-Eeg che fMri. La mia giornata tipo è arrivare in laboratorio, accogliere il soggetto per la sessione di registrazione dei dati e analizzare i dati acquisiti. Inoltre, in laboratorio sviluppiamo anche scenari di realtà virtuale e aumentata, facciamo analisi di segnale di magnetoencefalografia (Meg) e disponiamo di un guanto (CyberGlow) per il tracciamento della cinematica della mano. Il nostro topic principale, insomma, è l’utilizzo della mano, in contesti naturalistici e le strategie che usa il cervello per controllare un effettore cosi complesso.
Com’è fare ricerca nell’ambito dell’innovazione tecnologica?
Nel passaggio dall’essere uno studente a diventare ricercatore cambia l’approccio ai problemi e il modo in cui bisogna risolverli. Quando sei uno studente, il professore rappresenta una figura di riferimento a cui chiedere delucidazioni se c’è un argomento che non hai compreso o se vuoi approfondire un certo tema. In ambito lavorativo, invece, hai l’esigenza di muoverti in autonomia lungo percorsi inesplorati e la soluzione non è sempre dietro l’angolo. Questo per un neolaureato può risultare inizialmente difficile. Ci tengo a sottolineare che anche nella ricerca, comunque, si hanno tante figure di riferimento che ti supportano. In laboratorio, sebbene ognuno segua il proprio progetto di ricerca, ci sono costanti labmeeting dove ognuno presenta lo stato dei lavori relativi al proprio progetto; in queste occasioni si danno consigli su come procedere e come migliorare alcuni aspetti del proprio studio. Il fatto di avere anche la visione di persone con un diverso expertise e quindi una prospettiva completamente diversa dalla tua, ti permette di fare un salto di qualità. Inoltre, si può contare sulla guida del coordinatore scientifico, che nel mio caso è la professoressa Betti. Però devi affrontare dei temi che nessuno ha mai affrontato prima di te. Questo, come ho detto prima, può certamente spaventare ma anche rafforzare la passione e l’entusiasmo che ti spinge ad andare avanti e cercare di vedere le cose da un punto di vista differente per trovare delle soluzioni diverse rispetto a quelle applicate precedentemente.
E i risultati sono un’importante gratificazione per il lavoro svolto.
Esatto. Un’altra cosa che potrebbe demoralizzare è formulare un’ipotesi iniziale e vedere, man mano che si va avanti con il lavoro, che non si riesce ad ottenere il risultato sperato; però bisogna avere anche la capacità e la dinamicità di cambiare le cose in corso d’opera. Quando si riesce a scoprire qualcosa a livello di ricerca di base o a produrre una tecnologia che possa permettere ai clinici di ottimizzare il loro lavoro o ai pazienti di poter vivere meglio, sono sempre grandissime soddisfazioni; è il motore che ti spinge ad andare avanti e a fare sempre meglio.
Fare ricerca è molto gratificante ma altrettanto impegnativo, ti è mai capitato di perdere la fiducia? E se sì, cosa ti ha spinto ad andare avanti?
Quando si fa ricerca ci sono alti e bassi, anche per le difficoltà di cui parlavamo prima. Secondo me, almeno per quello che mi hanno insegnato sia a livello familiare che a livello lavorativo, bisogna affrontare un problema alla volta, andare sempre avanti per raggiungere i propri obiettivi e cercare di non demoralizzarsi mai.
Quali consigli daresti a uno studente che vuole diventare ricercatore?
Cercare di avere sempre uno sguardo critico sia verso il proprio lavoro sia verso ciò che si legge e si studia, questo ti può dare strumenti nuovi per affrontare le domande ancora aperte nell’ambito della ricerca. E studiare tanto, anche una volta concluso il percorso universitario, rimanere sempre aggiornati sulle nuove tecnologie e sulle scoperte scientifiche perché questo dà le conoscenze per poter approcciare ai problemi da un punto di vista nuovo.
Quindi essere sempre curiosi?
Esatto, la curiosità è il motore che ti spinge a studiare cose nuove e scoprire cose nuove. Bisogna essere sempre curiosi.
Un’ultima domanda: hai dei progetti per il futuro?
Il mio obiettivo è riuscire a portare a termine i progetti che ho con la professoressa Betti. E sarebbe bello anche, e lo stiamo già facendo, sia con l’università di Padova sia con l’azienda BrainTrends, cercare dei finanziamenti aggiuntivi per portare avanti il lavoro della matrice di elettrodi per l’acquisizione del segnale elettromiografico. In questo momento è ancora a uno stato prototipale, ma in futuro l’idea è quella di creare un kit da poter fornire direttamente al medico o all’utente finale, ad esempio uno sportivo, per registrare il segnale elettromiografico direttamente nello studio medico o a casa. Il sogno sarebbe quello di sviluppare un’applicazione che permetta ai medici di monitorare il segnale elettromiografico di un paziente che potrebbe tranquillamente applicare la matrice di sensori come un cerotto a casa, registrare tramite un hardware miniaturizzato con connessione wireless e, tramite un’applicazione, permettere al medico di controllare l’attività elettromiografica del paziente direttamente a domicilio. Sono tutti progetti ancora aperti che spero di portare a compimento.
Immagine in evidenza {Patrizia Tocci, fotografa di Fondazione Santa Lucia}
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