Un Nobel che non c’è: il premio Goldman
Il Goldman Environmental Prize, istituito nel 1990 e detto anche “il Nobel verde”, premia ogni anno gli attivisti dell’ambiente
Il 18 aprile scorso si è tenuta a San Francisco la cerimonia di assegnazione dei premi Goldman per il 2016. Come ogni anno sono stati selezionati sei attivisti, uno per ogni regione geografica del mondo (Asia, Europa, Isole e nazioni insulari, America del Nord, America Centrale, America del Sud), che hanno affrontato con successo sfide in campo ambientale.
Il Goldman Environmental Prize o Green Nobel è stato istituito nel 1990 dai coniugi Goldman, filantropi americani, per colmare una lacuna dei “veri” Nobel. Non esiste, infatti, un premio dedicato a chi si impegna nella giustizia ambientale, nei diritti delle popolazioni indigene, nella protezione delle risorse naturali e nella conservazione della biodiversità, sebbene questi temi possano rientrare nel Nobel per la Pace. Le candidature vengono esaminate ogni anno da una giuria internazionale che riceve segnalazioni anonime sia da una rete di associazioni non governative che da singoli attivisti. Oltre all’onorificenza, ai sei vincitori viene consegnato anche un premio di 150.000 dollari dalla fondazione Goldman.
Dei sei premiati di quest’anno la storia più toccante è quella di Máxima Acuña de Chaupe, contadina peruviana in contrasto con la politica mineraria del governo. Máxima ha 44 anni, vive a 4200 metri di altezza sulle Ande, nella regione di Cajamarca, zona ricca di metalli preziosi come l’oro e il rame. L’industria mineraria in Perù è molto forte e ha l’appoggio incondizionato del governo, così, quando i proprietari della miniera d’oro di Yanacocha, una delle più grandi della zona, hanno deciso di espandersi, è arrivato l’ordine di esproprio del terreno su cui la famiglia Acuña vive da 24 anni. Un terreno ricco non solo di oro, ma anche caratterizzato da una grande biodiversità, fonte di sussistenza per la comunità contadina.
Insieme all’ordine di esproprio, a cui Máxima si oppone, nel 2010 arrivano anche le ruspe e i militari: devastano la casa, i campi, i ricoveri degli animali. La famiglia però non si arrende e iniziano anni di stress psicologico fortissimo: la compagnia mineraria fa recintare il terreno attorno alla baracca di lamiera degli Acuña, trasformando in detenzione quella che una volta era libertà. L’unica via d’uscita è il sentiero di proprietà di Yanacocha, sorvegliato da guardie armate che spiano ogni passo di Máxima e della sua famiglia.
Máxima non lotta solo per far valere un proprio diritto, ma anche e soprattutto per difendere la principale fonte di sussistenza di molte comunità della zona: le lagune.
“Per noi il vero oro è l’acqua,” ha spiegato “le lagune sono madri. Antiche, femminili e generatrici. Divinità di terra e acqua che tessono interdipendenze tra la flora, la fauna e gli esseri umani che ne beneficiano. I guardiani delle lagune, i contadini, sono i custodi di questo culto.”
La costruzione di una miniera d’oro a cielo aperto porterebbe non solo alla distruzione delle lagune, che diventerebbero un deposito per l’acqua al cianuro utilizzata per l’estrazione, ma all’inquinamento dell’intero bacino idrogeologico della regione.
La storia di questa contadina peruviana ricorda molto quella di Wangari Muta Maathai, un’altra “pasionaria”: Wangari era una biologa africana, fondatrice del Green Belt Movement, un’organizzazione non governativa contro lo sfruttamento delle foreste keniote. Anche a lei, nel 1996, è stato assegnato il Premio Goldman e nel 2004 è stata la prima donna africana a ricevere il Nobel per la Pace.
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Crediti dell’immagine in evidenza: Goldman Environmental Prize
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